LE PASQUE VERONESI

(17-25 aprile 1797)


Col nome di
Pasque Veronesi, per analogia con i Vespri Siciliani, fu chiamata l'insurrezione generale della città di Verona e del suo contado, scoppiata il 17 aprile 1797, lunedì dell'Angelo. Tra le innumerevoli insorgenze che dal 1796 al 1814 costellarono l'Italia e l'Europa occupate da Bonaparte e che esprimevano il rigetto da parte delle popolazioni dei falsi princìpi della rivoluzione francese, imposti con le baionette, la sollevazione di Verona è certamente la più importante in Italia, dopo la Crociata della Santa Fede del 1799, con la quale il Cardinale Fabrizio Ruffo di Calabria e i contadini del Mezzogiorno riconquistarono un intero Regno ai Borboni di Napoli.


1 - Verona e la Serenissima prima della Rivoluzione

Dopo aver ucciso il proprio legittimo Sovrano, Luigi XVI, sterminata la sua famiglia e fatto perire nel carcere della Torre del Tempio il Delfino all'età di dieci anni, abbattuta la monarchia, perseguitati il culto e la religione cattolica, la Francia rivoluzionaria, già ubriaca dei massacri del Terrore, si avventura in una serie di guerre con le altre Potenze europee. Le orde rivoluzionarie, guidate dalle sette anticlericali più tenebrose, prima fra tutte dalla massoneria, sono ansiose di esportare in tutto il mondo l'odio contro la Chiesa e di rovesciare le tradizionali Istituzioni sacrali, sia civili che religiose, alle quali i popoli erano attaccatissimi.
Gli Stati italiani e la Repubblica aristocratica di Venezia conoscevano purtroppo allora una triste decadenza morale: gran parte del patriziato, ombra di quello che aveva affrontato e vinto tante volte il Turco, era infiltrato dai principi libertari e libertini della Rivoluzione Francese; indifferente alla religione, imborghesito, disinteressato del bene pubblico, spessissimo affiliato a logge massoniche, nelle quali si contavano moltissimi professionisti ed anche sacerdoti e vescovi. Solo il popolo e buona parte del clero (specie basso) erano rimasti refrattari alle idee illuministe e secolarizzanti che provenivano d'Oltralpe: la loro commovente fedeltà all'ordine tradizionale, civile e religioso, ricevuto quale preziosa eredità dai propri padri e da essi difeso anche a costo della vita (si contano a centinaia di migliaia gl'insorgenti caduti durante la parabola napoleonica dal 1796 al 1814) rifulge nelle sollevazioni controrivoluzionarie che costellarono da un capo all'altro la Penisola e delle quali i manuali scolastici di storia non fanno parola. Nel sostanziale tradimento del proprio glorioso passato da parte delle classi dirigenti di allora sta la spiegazione della dissoluzione della millenaria, gloriosa Repubblica di Venezia.
Verona, tuttavia, si discosta alquanto da questo quadro poco confortante. La città, sul finire del secolo XVIII, conta all'incirca 50.000 anime, che raggiungono le 230.000 comprendendovi anche la provincia. Un moderato benessere economico è diffuso anche nelle classi sociali meno abbienti, favorito da quasi cinquant'anni ininterrotti di pace. Il patriziato veronese, proprietario di cospicui fondi nel contado, migliora le condizioni di vita delle campagne, mentre in città l'antica e celebre industria della seta è ricercata e produce soprattutto per l'estero. L'amplissima autonomia amministrativa e giurisdizionale di cui gode Verona e la irrisoria pressione fiscale non fanno che accrescere il filiale affetto delle popolazioni verso la Serenissima. La concordia tra le varie classi sociali e lo spirito religioso, straordinariamente radicato in tutti i ceti, completano il quadro di una società ordinata e pacifica, naturalmente ostile alle inaudite idee che dalla Francia giacobina stanno contagiando anche l'Italia Settentrionale. Anche a Verona, infatti, la massoneria - principale istigatrice della sovversione - cerca aderenti, ma gli affiliati sono pochi e presto l'attenta e discreta vigilanza degli Inquisitori di Stato - forse l'unica magistratura veneziana ancora efficiente ed all'altezza del suo glorioso passato - ne scopre le trame tenebrose, smantellando le logge e disperdendone i membri. La pressoché assoluta partecipazione popolare alle pratiche cattoliche, un clero ancora immune dall'infezione rivoluzionaria, la presenza di numerosissime confraternite laiche in tutto il territorio impediscono l'affermarsi dell'eresia giansenista, i progressisti di allora, fautrice delle idee sovversive di Francia.
Proprio pochi anni prima delle Pasque Veronesi ricevono la loro formazione religiosa giganti della fede cattolica quali San Gaspare Bertoni, futuro fondatore degli Stimmatini, il Servo di Dio Don Pietro Leonardi, il Beato Carlo Steeb e la marchesa Santa Maddalena di Canossa, appartenente ad una delle più antiche ed aristocratiche famiglie cittadine, che fonderà nel secolo a venire l'Ordine delle Figlie della Carità, mentre a reggere la Cattedra di San Zeno si trova già dal 1790 il patrizio veneziano ex-gesuita Gianandrea Avogadro, profondamente anti-giansenista e vivace oppositore della dissolutrice filosofia sociale illuminista. Insomma, come riferiva alla Dominante il 25 gennaio 1795 il marchese Francesco Agdollo, un agente segreto inviato a Verona per controllare e relazionare sulla presenza tra le mura scaligere del Conte di Lilla, futuro Luigi XVIII Re di Francia: "Nessuna notizia da questa città, il buon ordine, una senza simile popolazione fa apparire essere questa la sede della tranquillità".

2 - L'invasione napoleonica

Nel marzo del 1796, Napoleone Buonaparte, un oscuro ufficiale còrso (favorito dell'amante di Barras, allora capo del Direttorio francese) già distintosi qualche mese prima nel cannoneggiamento della folla parigina, giunge al comando dell'armata d'Italia, incaricato di aprire un fronte secondario, rispetto a quello del Reno, contro l'Austria Imperiale.
Le insospettate doti del Bonaparte, la sua spregiudicata condotta militare (disprezzo della parola data e delle regole cavalleresche che fino ad allora disciplinavano la guerra, ricorso all'oro pur di corrompere i generali avversari, saccheggio sistematico dei territori occupati anche se neutrali, mantenimento e alloggiamento delle truppe a spese delle popolazioni civili trattate come nemiche, oppressione dei vinti) un servizio di spionaggio assai più efficiente e remunerato di quello dell'avversario, l'aiuto potente della massoneria e delle altre sette segrete, il ricorso agli stupefacenti (la famosa cantaride) per galvanizzare i soldati di leva, quando il fanatismo dei commissari rivoluzionari incaricati di sorvegliarli da solo non bastava e tanta fortuna, spiegano i successi mietuti dall'armata fra il 1796 ed il 1797.
Occupati il Piemonte e la Lombardia austriaca, col pretesto d'inseguire gl'imperiali in fuga, Bonaparte invade anche i territori neutrali della Serenissima Repubblica di Venezia, che aveva rifiutato le ripetute offerte di alleanza militare sia dell'uno che dell'altro belligerante. Il 1° giugno 1796 Napoleone entra in Verona con le micce accese ai cannoni, nell'ostilità generale. Subito i suoi si distinguono in ruberie ed empietà, infischiandosene della neutralità veneta ed impossessandosi delle fortezze e del relativo armamento.
Vinti gl'imperiali a Rivoli, nel marzo 1797 il piano di sovvertimento della Serenissima si realizza: Bonaparte spinge un pugno di cospiratori bergamaschi e bresciani ad un colpo di Stato, per staccare Bergamo e Brescia dalla Serenissima, le quali si proclamano repubbliche indipendenti, mentre sono in realtà soltanto dei fantocci protetti dalle baionette d'Oltralpe. Crema è rivoluzionata a tradimento dagli stessi francesi. Tutta la Lombardia veneta è in fiamme. Salò è contesa da giacobini e abitanti delle vallate, incondizionatamente fedeli al leone di San Marco, i quali, guidati da un eroico sacerdote, Don Andrea Filippi, hanno alla fine la meglio e chiedono soccorso ai veronesi. I giacobini sono però decisi non solo a riprendere Salò, ma anche a marciare su Verona.
Per non essere a sua volta rivoluzionata con la violenza o col tradimento, Verona fidelis dà subito prova della sua lealtà al legittimo governo, chiedendo al Senato Veneto di potersi armare e difendere dai giacobini bergamaschi e bresciani. Quarantamila veronesi in armi, fra cui numerosi sono i contadini delle cernide, guidati dal giovane generale Antonio Maffei, si schierano a presidiare il confine col bresciano, liberano diversi abitati e giungono addirittura ad assediare Brescia; la coccarda giallo-azzurra coi colori cittadini è il loro emblema. Il vescovo di Verona, Mons. Gianandrea Avogadro, modello di carità per tutti i combattenti controrivoluzionari, dà ordine di fondere le argenterie delle chiese per la salvezza della patria. In città, tra l'imbarazzo e l'apprensione dei francesi barricati nei castelli, è tutto un pulire spade e lucidare moschetti, mentre compaiono ad ogni angolo di strada cartelli e scritte di Viva San Marco! Tutte le porte sono sorvegliate a vista dalla Guardia Nobile, una milizia volontaria appositamente costituita dalle autorità veronesi, a testimonianza di una sfiducia ormai diffusa verso le forze armate nazionali, vincolate dal Senato al rispetto della scellerata politica di neutralità disarmata. Così, pur di tenere fede a tale politica, la Repubblica, fedele alla propria neutralità, proibisce ai veronesi qualsiasi atto di ostilità contro i francesi, i quali, da Milano, da Mantova e da Ferrara-Padova si mettono intanto in marcia contro l'esercito veneto-scaligero del Maffei e contro la città.


3 - Le Pasque Veronesi

Il 17 aprile 1797, lunedì dopo Pasqua, le continue provocazioni francesi fanno sorgere i primi incidenti. Quando, alle 17, durante i vespri, le batterie dei castelli sovrastanti la città e che sono in mano nemica, iniziano a cannoneggiarla, i veronesi esasperati insorgono come un sol uomo al grido di Viva San Marco!, mentre le campane a martello avvisano anche il contado che la sollevazione generale è iniziata.
Per nove giorni si combatte casa per casa; tutte le porte sono liberate; assaltate le piazzeforti; inviate richieste d'aiuto a Venezia, nel cui nome e nel cui interesse si battaglia e si muore e all'Impero, che però proprio in quei giorni aveva siglato con Bonaparte i preliminari di pace a Leoben. Il popolo, inesperto nel maneggio dei cannoni, è soccorso da sei artiglieri imperiali, liberati dalla prigionia di guerra. Si assedia Castelvecchio. Trasportati i pezzi da fuoco sui colli di San Mattia e di San Leonardo, il popolo cannoneggia dall'alto i rivoluzionari francesi asserragliati dentro Castel San Pietro e Castel San Felice: altri duecento soldati imperiali combattono confusi nella mischia.
A capitanare i veronesi sono il Conte Francesco degli Emilei ed il Conte Augusto Verità. A migliaia i contadini si precipitano a soccorrere Verona. Giungono per primi gli abitanti della Valpolicella, che si offre di condurre tutti i suoi uomini; scendono i montanari dalla Lessinia; altre colonne di volontari in armi arrivano dalla bassa e dall'est veronese.
Il popolo avanza palmo a palmo verso i forti, respinge ogni tentativo di sortita da parte del nemico e tratta da traditore chiunque voglia patteggiare con lui.
L'infido generale Beaupoil, che dai castelli sopra la città, la batteva con le artiglierie, disceso a parlamentare, ben presto perde tutta la sua tracotanza, piagnucola e si vede salvata la vita dal Marchese Giona, che lo sottrae al linciaggio della folla esasperata. Gli ebrei del ghetto parteggiano senza esitazione per i nemici, offrendo loro ricetto e armi. Dalla perquisizione del ghetto saltano fuori in effetti tre casse di esplosivo ed altro materiale bellico, da essi occultato, per metterlo a disposizione dei rivoluzionari francesi.
Castelvecchio alza bandiera bianca: viene ordinato il cessate il fuoco, ma i rivoluzionari francesi, scorgendo che gli assedianti, imprudentemente, si erano troppo avvicinati al castello, aperte le porte, ne approfittano per scaricare a tradimento contro di loro un cannone a mitraglia, facendone strage. Una pattuglia imperiale, che reca purtroppo la notizia dei preliminari di pace, è accolta in delirio dalla popolazione che la crede invece un'avanguardia degl'Imperiali, prossimi a liberare la città dagli odiati giacobini. A Pescantina l'eroica resistenza degli abitanti blocca l'avanzata di una colonna francese, impedendole di traghettare l'Adige, eroismo che diciannove pescantinesi, fra cui donne e bambini, pagano con la vita, moschettati o arsi vivi nelle loro case.
A Venezia, intanto, Emilei non ottiene gli aiuti sperati e deve rientrare a mani vuote. Sul lago il generale Maffei, attaccato dagli eserciti francesi provenienti da Milano, deve arretrare, fedele alla consegna del Senato di non scontrarsi con essi, ma a San Massimo e a Santa Lucia il 20 aprile s'ingaggia battaglia aperta; lo scontro volge in un primo tempo a vantaggio dei soldati veneti ed è quella l'ultima volta che la vittoria arride a San Marco, ma poi, sopraffatti dal numero, essi sono costretti a ritirarsi tra le mura.
Alla fine di nove giorni di combattimenti i francesi contano a centinaia le vittime lasciate sul campo in quella che è diventata, per l'esercito più potente d'Europa, una cocente sconfitta militare. Poco più di un centinaio sono i caduti veronesi. Circa 2.400 sono i prigionieri francesi catturati, dei quali 500 sono militari, altri 900 appartengono al personale civile dell'esercito napoleonico assieme ai loro familiari: tutti erano stati condotti in Piazza dei Signori, presso il palazzo dei rappresentanti veneti a Verona. Altri 1.000, infine, degenti negli ospedali cittadini, sono ivi piantonati dagli stessi veronesi per preservarli da ogni vendetta.
La sorte della città, privata di ogni soccorso esterno, è tuttavia segnata; ma il popolo non vuole ancora arrendersi. In provincia si susseguono le esecuzioni sommarie: in località Ca' dei Capri, presso San Massimo, cade fucilato sotto il piombo francese un giovanissimo sacerdote, Don Giuseppe Malenza, che guidava un gruppo d'insorgenti. Dalle alture i giacobini veronesi, traditori della loro patria, suonano fanfare militari per l'imminente crollo dell'aborrita Verona. Infine, assediata da cinque eserciti, bombardata giorno e notte, tradita dai Provveditori Veneti che l'abbandonano per ben due volte pur di non violare la chimerica neutralità, Verona capitola il 25 aprile 1797, giorno di San Marco, dichiarando al tempo stesso, con un gesto simbolico che sottolinea il disprezzo per l'ignavia ed il tradimento dei veneziani e che la eleva a rango di capitale, cessato il dominio veneto su di essa.


4 - La vendetta rivoluzionaria e la fine della Serenissima

Disarmato il popolo, resi inservibili i cannoni, presi in ostaggio i sedici più eminenti concittadini (fra cui il vescovo, l'Emilei, Verità e tutte le più alte cariche) il 27 aprile i francesi rientrano in Verona. Per prima cosa saccheggiano il Monte di Pietà, la banca dei poveri. Vengono imposte contribuzioni enormi, depredate le opere d'arte, mentre una commissione militare è incaricata di far deportare alla Guyana i cinquanta colpevoli principali dell'insurrezione. I traditori veronesi, peggiori dei loro padroni, vorrebbero mutare nome a Verona (ribattezzandola Egalitopoli o Città dell'Eguaglianza) essendosi macchiata dell'onta di essersi ribellata a cotanti liberatori e vorrebbero punire con una pubblica decapitazione sul corso, tutti i capi famiglia protagonisti della gloriosa difesa della propria città e del proprio legittimo ed amato governo. Sono gli stessi francesi, per non aggravare la tensione, ad impedire la consumazione del massacro.
Ma la vendetta non si fa attendere: il 6 maggio 1797 sono arrestati nella notte e mandati a morire tra il 16 maggio, l'8 e il 18 giugno, dopo un processo politico farsa tenutosi a Palazzo Ridolfi Da Lisca, attuale sede del Liceo Scientifico Messedaglia, Giovanni Battista Malenza (fratello di Giuseppe) del controspionaggio veneto, al quale i giacobini l'avevano da tempo giurata e che era stato uno dei capi dell'insurrezione cittadina, i Conti Emilei e Verità le cui case sono abbandonate al saccheggio ed il vecchio frate cappuccino Luigi Maria da Verona (al secolo Domenico Frangini) morto in concetto di santità. Disgustato dall'empietà dei sanculotti, in una lettera ad un suo confratello, intercettata, li aveva definiti peggiori dei cannibali, perché questi ultimi avevano levate le mani solo contro gli uomini, mentre i repubblicani francesi le avevano levate contro Dio. Rifiutatosi di disconoscere la paternità della lettera o di farsi passare per pazzo o per ubriaco, Padre Frangini affronta il martirio, raggiante, al suono scordato dei tamburi. Anche i popolani Pietro Sauro, Andrea Pomari, Stefano Lanzetta e Agostino Bianchi subiscono analoga sorte: fucilati tutti a destra di Porta Nuova, guardandola dall'esterno.
Clamoroso anche il difetto di giurisdizione del tribunale militare rivoluzionario: esso condanna a morte gl'insorgenti veronesi, in forza di una legge criminale francese che punisce i reati commessi contro l'esercito repubblicano in territori di Stati in guerra con la Francia, la quale era ancora formalmente in pace con la neutrale Serenissima.
Non appena rioccupata la città, i rivoluzionari francesi decidono l'immediata deportazione in massa in Francia, via Cisalpina e quindi via Milano, dei 2.500 uomini della guarnigione veneta che aveva difeso la città ed in particolare del Reggimento di Fanteria Treviso. Per accoglierli, la patria dei liberatori dell'umanità istituisce il primo universo concentrazionario moderno.
Da quei campi di prigionia e di sterminio, tornarono meno della metà, dopo la pace di Campoformio, rimpatriati, sul finire di quel terribile 1797 e nei mesi successivi, attraverso la frontiera del Reno, passando per i territori amici dell'Impero. La maggior parte di quei militi, colpevoli soltanto di aver fatto il proprio dovere, morì di fame o di stenti in Francia; altri ancora sulle strade del Brennero o del Tarvisio, sulla via di casa.
Nei mesi successivi giacobini veronesi e rivoluzionari transalpini si sfogano ad elevare alberi della libertà e piramidi, a scoronare e depredare in Cattedrale la venerata immagine della Madonna del Popolo (alla quale viene negato il titolo troppo aristocratico di Regina, declassandola a cittadina Madonna) e ad altri sacrilegi, a lanciare spropositi dalla sala di pubblica istruzione, proponendo ad esempio di bruciare tutti i confessionali, di far mitragliare in Stradone San Fermo gli ecclesiastici o di distruggere le Arche Scaligere, perché innalzate sotto un regime anti-democratico. I leoni di San Marco vengono abbattuti, gli stemmi nobiliari e i rispettivi titoli proibiti, sotto pena di pesanti multe per chi soltanto osi pronunciarli. Addirittura, per giustificarsi di aver aggredito una città ed una Repubblica neutrale ed in pace con loro, rivoluzionari transalpini e giacobini veronesi rovesciano le loro responsabilità sulle vittime, inventando la favola del massacro di Verona e facendo passare l'insurrezione di una città stanca della tirannia dei suoi pretesi liberatori, come un eccidio di massa, programmato e freddamente realizzato, di soldati francesi malati o feriti. A questa menzogna sono ispirate quasi tutte le stampe dell'epoca relative alla sollevazione di Verona.
Proclamate le elezioni, i giacobini, giunti al potere solo grazie alla forza francese d'occupazione, speravano di vedere legittimata la loro usurpazione. Quale delusione, quale rabbiosa reazione quando si vedono sconfitti in quasi tutti i collegi dagli appartenenti all'antica classe nobiliare! Naturalmente, il verdetto popolare non viene rispettato dai democratizzatori; il generale francese, al quale spetta l'ultima parola, estromette a forza gran parte degli eletti, giudicati troppo legati all'antico regime e ripesca i perdenti. Il vescovo viene infine di nuovo arrestato: la prima volta, non avendo voluto benedire l'albero della libertà, aveva scampato per un solo voto il plotone di esecuzione; adesso, pochi giorni prima che i rivoluzionari d'Oltralpe evacuino definitivamente la città, questi lo vogliono costringere con la prigione a concedere il divorzio ad un ufficiale francese.
Mentre Verona geme sotto l'arrogante sferza della Rivoluzione, le autorità veneziane consumano l'ultimo tradimento della Repubblica, rinunziando a difendersi, pur non avendo Bonaparte alcun naviglio per conquistare Venezia, alla quale aveva frattanto dichiarato guerra. Il 12 maggio 1797 lo stesso Doge Ludovico Manin propone al Maggior Consiglio, per le cui deliberazioni mancava quel giorno oltre tutto il numero legale, la devoluzione del potere al popolo e la democratizzazione rivoluzionaria. Le uniche autorità che si erano condotte con onore, gl'Inquisitori di Stato e l'eroico capitano Domenico Pizzamano, il quale, obbedendo agli ordini, aveva bombardato e costretto alla resa un vascello nemico insinuatosi in laguna, sono tratti in arresto, come chiesto da Bonaparte e dai suoi. Per ironia della sorte, quella nave francese si chiamava Il liberatore d'Italia. Non soltanto, ma un tumulto popolare antifrancese e in difesa della Serenissima che scoppia a Rialto, è soffocato nel sangue dalle stesse autorità venete.
Dopo mille anni di splendore e d'incontrastato dominio del leone alato di San Marco, durante i quali il glorioso gonfalone della Serenissima era sventolato su tutti i mari, temuto e rispettato perfino dal Turco, l'antica città dei Dogi è consegnata ad un nugolo di municipalisti intriganti e parolai, che piantano l'albero della libertà in San Marco, minacciano la pena di morte a chiunque osi gridare Viva San Marco! e che usurperanno il potere fino all'ingresso, trionfale, degl'imperiali in città, nel gennaio 1798.


5 - La Restaurazione

Dopo diciotto mesi d'incessanti preghiere e di candele accese giorno e notte innanzi all'altare della Madonna del Popolo, i veronesi sono esauditi e ottengono la grazia di essere liberati dalla barbarie rivoluzionaria. Il 21 gennaio 1798, esattamente nel quinto anniversario del martirio di Luigi XVI, Re Cristianissimo di Francia, le divisioni imperiali comandate dal Barone Wilhelm von Kerpen, da Porta Nuova entrano in formazione di parata in città, accolte da una popolazione in delirio. Nel Te Deum in Cattedrale il vescovo invita magnanimamente ad evitare le vendette, mentre il teatro resta aperto e tutta la città è pavesata a festa ed illuminata in segno di giubilo per quella notte memorabile.
Verona non dimentica i suoi eroi. I corpi senza vita dei tre sfortunati difensori della città (Emilei, Verità e Malenza) come degli altri suppliziati, che erano stati sepolti frettolosamente in una fossa comune nel camposanto della Santissima Trinità, il 6 febbraio 1798 sono dissotterrati ed inumati nelle rispettive tombe di famiglia. E, per decreto del Consiglio Nobiliare cittadino, nella chiesa di San Sebastiano, di giuspatronato della città, il 23 settembre 1799 si tiene una solennissima cerimonia, a cui partecipano tutte le autorità cittadine, vestite a lutto. Per l'occasione viene eretta un'imponente macchina funebre, fregiata di numerose ed eleganti incisioni che ricordano le principali gesta di quei martiri.
Con l'arrivo delle truppe cesaree, anche l'impavido cappuccino Padre Luigi Maria da Verona, riceve degna sepoltura. Il suo corpo viene estratto incorrotto (se si eccettua la testa, dove era stato offeso dai colpi mortali) con grande sorpresa di tutti, dalla nuda terra nella quale giaceva già da sette mesi. È tumulato nella chiesa dei cappuccini, la quale per ordine di Bonaparte viene in seguito soppressa, abbandonata dai religiosi e trasformata in caserma. Di Padre Luigi Maria nessuno si ricorderà più, fino al 29 marzo 1897, quando, in occasione del primo centenario delle Pasque Veronesi il dotto sacerdote Antonio Pighi ne recupera i resti mortali, che, accompagnati da un numeroso corteo, sono deposti nel Cimitero Monumentale, nell'edicola dei Cappuccini. Era l'8 giugno 1897 e quel giorno correvano cento anni esatti dal suo supplizio.


PASQUE VERONESI: LE MEMORIE DELL'EPOCA

"Per noi finì dunque nel giorno sacro al protettore della Repubblica Veneta, San Marco, la nostra sudditanza a questa moribonda Repubblica, tributandole nell'atto estremo di nostra irreparabile caduta il più cruento sacrifizio che possa mai offrire una suddita fede sull'altar della sovranità. Bell'esempio agli altri popoli d'Italia, anzi a molti altri d'Europa, che, trascinati dal furor di fanatici banditori d'un governo ripugnante alle divine ed umane leggi, come noi [...] precipitati in un baratro d'infiniti guai e miserie, non ci avranno comune quel bel titolo di fedelissimo popolo da remoti tempi acquistatoci". Girolamo De' Medici, Vicende sofferte dalla provincia veronese sul finire del secolo XVIII e nel cominciamento del XIX, ms. 1360, presso la Biblioteca Civica di Verona, II, c. 288.


Per saperne di più:

(1) Francesco Mario Agnoli, Le Pasque Veronesi, Il Cerchio Iniziative Editoriali, Rimini, 1998 pp. 300 circa. Euro 20. Il volume, già richiedibile all'editore (Il Cerchio Iniziative Editoriale - Via dell'Allodola, 8 - 47900 RIMINI - 0541/791570-775977 - Fax 799173 - E-mail: ilcerchio@iper.net oppure al Comitato per la celebrazione delle Pasque Veronesi - Via L. Montano, 1 - 37131 VERONA - Tel. 045/8403819-520859 Fax 045/8345548) è attualmente esaurito.
(2) Francesco Mario Agnoli, I processi delle Pasque Veronesi. Gl'insorti veronesi davanti al tribunale militare rivoluzionario francese (maggio 1797-gennaio 1798), Il Cerchio Iniziative Editoriali, Rimini, 2002, pp. 250 circa. Euro 16,50. Richiedibile come sopra. In appendice le sentenze e le carte processuali inedite, ritrovate a Parigi.
    È poi prevista una riedizione accresciuta del primo tomo del volume Le Pasque Veronesi, completata da un secondo tomo, con un saggio di Francesco Mario Agnoli dedicato al culto di Napoleone e per il resto interamente iconografico: il testo aduna quasi mille immagini originali che costituiscono una documentazione straordinaria, di prima mano e in larga misura inedita, delle Insorgenze, delle Pasque Veronesi in ispecie, della caduta della Serenissima e della satira rivoluzionaria e controrivoluzionaria, con speciale menzione iconografica del ridicolo culto della personalità di Bonaparte. Purtroppo questa riedizione con il volume iconografico dedicato all'insorgenza veronese non ha trovato finora attenzione né presso le istituzioni cittadine infette di spirito rivoluzionario, né presso l'assessorato alla cultura e all'identità veneta della Regione.
    È altresì prevista la pubblicazione di una collana dei principali testi (diari e memoriali dell'epoca) relativi alle Pasque Veronesi, che giacciono impubblicati e a rischio di andare distrutti per sempre nei fondi di biblioteche o collezioni private. Anche per salvare tali opere, l'appello alle pubbliche Istituzioni è doveroso.