Una corona al servizio della Rivoluzione:

Carlo Alberto di Savoia

e lo Statuto (1848)

di Subalpinus

                                  

Indice

 

1. Rivoluzioni carbonare del 1820

2. Carlo Alberto era carbonaro?

3. La rivoluzione del 1821 in Piemonte

4. Carlo Felice e Carlo Alberto

5. La risoluzione del Re

6. L’Austria e la questione della successione sarda

7. Il Congresso di Verona (settembre-dicembre 1822)

8. Il giuramento di Carlo Alberto (1824)

9. L’incontro di Genova (1825)

10. Carlo Alberto Re di Sardegna (1831)

11. Carlo Alberto e la religione

12. La ‘cospirazione’ italiana e Carlo Alberto

13. Rivoluzione ‘culturale’ in Piemonte

14. Trame nell’ombra

15. Carlo Alberto getta la maschera

16. Carlo Alberto e Pio IX

17. Carlo Alberto caccia Clemente Solaro de La Margarita (9 ottobre 1847)

18. Carlo Alberto e le prime riforme liberali

19. Carlo Alberto si fa Re costituzionale (febbraio-marzo 1848)

20. La giornata del 7 febbraio 1848

21. La giornata dell’8 febbraio 1848

 

 

Il lungo dominio napoleonico aveva non solo permesso la diffusione in tutta l’Europa continentale delle idee rivoluzionarie, ma anche creato una nuova classe dirigente. chi si era arricchito con i beni confiscati alla Chiesa, i funzionari dell’amministrazione e gli ufficiali del disciolto esercito, numerosi dei quali iscritti alla massoneria, erano tutti tendenzialmente ostili alla Restaurazione del 1815.

  Molti si adattarono in fretta al nuovo ordine di cose e rientrarono nei ranghi; altri invece, sebbene divisi e discordanti, cominciarono subito ad operare per rovesciare i governi da poco restaurati, adottando unanimemente come strumento di lotta politica la cospirazione, la congiura ed il terrorismo.

  Le sette e le società segrete, figlie della massoneria, si diffusero a macchia d’olio. La più nota di esse, la Carboneria, sorta di Brigate Rosse ante litteram, aveva sue basi o vendite in tutta l’Europa fin dagli ultimi anni del regime napoleonico. Sia i liberal-moderati, che i neogiacobini, affiliati alla setta carbonara, erano concordi nel perseguire il rovesciamento dell’ordine politico inaugurato dal Congresso di Vienna. Tutti volevano un ritorno a quella concezione laica dello Stato che era stata introdotta dalla rivoluzione francese del 1789.

  i moderati la ritenevano conseguibile con l’instaurazione di monarchie costituzionali, che garantissero i princìpi sostanziali del credo rivoluzionario (indifferenza dello stato verso la religione cattolica con la parificazione giuridica dei culti, istruzione pubblica gestita dallo Stato, libertà di stampa, introduzione del regime parlamentare, dominato dalla fazione liberale, come contrappeso all’autorità del principe ecc.) mentre i neo-giacobini preferivano la forma di governo repubblicana, che volevano integralmente atea, e perseguivano in campo sociale un programma di stampo socialista.

  Uno degli elementi ideologici del programma settario, ereditato dalla Rivoluzione del 1789, era il nazionalismo, l’idea, cioè, che i popoli dovessero emanciparsi dalla tutela delle antiche dinastie legittime per costituirsi in stati nazionali. Tale principio, tuttavia, se attecchì particolarmente in Italia, data la sua condizione politica, non fu mai quello essenziale del credo settario, poiché, come vedremo, i moti carbonari più importanti dell’età della Restaurazione presero il via proprio dalla Spagna e dalla Francia, due nazioni che da secoli avevano portato a compimento l’unificazione nazionale.

  Altro elemento importante nella strutturazione delle trame settarie fu l’internazionalismo, il fatto, cioè, che tutti i rami del settarismo europeo fossero legati più o meno strettamente l’uno all’altro, secondo un piano organico e una comune regia. Così le cospirazioni, una volta venute alla luce in un luogo, come d’incanto, nel giro di poco tempo, si propagavano alle altre parti d’Europa.

 

1. Rivoluzioni carbonare del 1820

 

Il 1° gennaio del 1820 a Cadice, in Spagna, ufficiali dell’esercito affiliati alla Carboneria, si ammutinarono, chiedendo il ripristino della Costituzione del 1812. la rivolta si estese ad altri reparti, e, nel marzo, re Ferdinando VII di Borbone (1784-1833) concedette lo Statuto. La rivoluzione assunse ben presto un volto anticattolico: il Nunzio pontificio venne cacciato; fu promulgato un Regolamento del clero modellato sulla Costituzione civile francese del 1790; confiscati i beni ecclesiastici; aboliti vari ordini religiosi.

  L’esempio spagnolo ebbe ripercussioni anche in Francia, dove un settario pugnalò a morte il Duca di Berry (1778-1820) nipote del Re.

  Nel luglio il regno delle due Sicilie fu investito dal vento rivoluzionario. A Nola alcuni reparti militari insorsero, seguiti da altri in Lucania e Puglia, alla cui testa si pose il generale Guglielmo pepe (1783-1855) un vecchio ufficiale napoleonico, ora aderente alla Carboneria. Il 13 luglio il Re decise di concedere una Costituzione modellata su quella spagnola. A Palermo, due giorni dopo, il 15, i settari inscenarono una sommossa, guidata da Florestano Pepe (1778-1851) fratello di Guglielmo.

  Il facile successo della cospirazione nel sud, e le notizie che provenivano dal resto d’Europa (in agosto anche in Portogallo si rividero simili scene) misero in fibrillazione i carbonari dell’Italia centrosettentrionale, desiderosi di passare all’azione, prima che l’Austria, garante dell’ordine nella penisola, intervenisse con le sue armate.

  La setta puntò soprattutto sul Piemonte.

 

2. Carlo Alberto era carbonaro?

 

Prima di narrare la rivoluzione piemontese del 1821, occorre dire qualcosa sulla figura di Carlo Alberto, Principe di carignano (1798-1849). Carlo Alberto apparteneva ad un ramo collaterale della Casa di savoia. Tuttavia, poiché sia il Re Vittorio Emanuele 1° che il fratello Carlo Felice, già avanti negli anni, non avevano figli maschi, il loro giovane nipote era destinato a salire sul trono del Piemonte.

  Il Carignano aveva ricevuto un’educazione liberale, e, quindicenne, era entrato nell’esercito bonapartista. Al momento della Restaurazione, Carlo Alberto non nascose la sua insofferenza per il clima austero e profondamente religioso che regnava alla corte sabauda. I suoi amici più stretti erano tutti o quasi in odor di massoneria o carbonari. La sua partecipazione attiva ai moti del 1821 sembra già una prova decisiva della sua affiliazione alla setta.

  Scrive “La Civiltà Cattolica” in un importante e ben documentato saggio intitolato La genesi dello Statuto. Studio storico:

  Le tendenze anzi le aspirazioni di Carlo Alberto al nuovo ordine di cose, cominciato e sparso in tutta Europa dalle glorie napoleoniche, avevano una origine antica e conosciuta. Né poteva incontrare altrimenti a chi nella sua prima età si era cresciuto ad esempi di genitori, che avevano salutato nelle piazze di Torino l’albero della libertà repubblicana; poi si educava alla libera in Parigi e in Ginevra, e appena quindicenne indossava la livrea dell’ufficiale napoleonico. Le impressioni lasciate nell’animo dalle glorie e dallo spirito di quell’uomo, che fu Napoleone, erano di uno stampo tale che non si cancellavano più mai, chi li avesse accolte una volta, massime in età giovanile e con una tempra d’indole come quella che avea sortito il principe di Carignano. Accolto nella reggia torinese subito dopo la Restaurazione del 1814 da Vittorio Emanuele e da Carlo Felice, vi fu circondato di uomini e di esempi acconci (forse era troppo tardi) a riformargli la mente ed il cuore, se nuove condizioni e uomini nuovi non avessero prescelto lui siccome l’uomo fatale, nel quale vollero s’incentrasse il destino d’una Italia nuova e le nuove speranze. La setta carbonaresca, che di quel tempo aveva sede in Torino, rivolse l’occhio e lo studio sopra il giovane principe. Il merito di guadagnarlo […] si ascrisse al marchese Roberto D’Azeglio, allora carbonaro militante…[i] Altri argomenti tuttavia, in questa spinosa questione, possono essere addotti, che giustificano questa deduzione e che spiegano quindi in prospettiva anche la sua futura attività di regnante.

  1. Carlo Alberto, dopo i moti carbonari del 1821, scrisse un Memoriale per discolparsi e dissipare ogni ombra sulla sua condotta. Egli scrive: “Je fus accusé de carbonarisme…”. Tuttavia nella risposta non smentisce categoricamente l’accusa, ma semplicemente, cambiando discorso, sottolinea il suo ardente desiderio di cacciare gli austriaci dall’Italia del nord.[ii]

  2. Crétineau-Joly, il più noto e documentato studioso cattolico dell’Ottocento sul fenomeno settario, nell’opera L’èglise romaine en face de la révolution, scrive che il carbonarismo propose i suoi progetti d’indipendenza italiana al Principe di carignano e che “le proposte accettate da Carlo Alberto di carignano furono, dopo il 1820, indirizzate a tutti i prìncipi di cui si poteva supporre la debolezza e l’ambizione [iii].

  Lo storico francese, inoltre, nel medesimo testo, cita una lettera di un ebreo, fondatore della Vendita carbonara del Piemonte, noto sotto lo pseudonimo di Piccolo Tigre, lettera datata 18 gennaio 1822:

  L’Alta Vendita desidera che, sotto un pretesto o un altro, s’introducano nelle Logge massoniche il maggior numero di prìncipi e di ricchi possibile. I prìncipi delle casate sovrane, ma che non hanno speranza legittima d’essere re per grazia di Dio, vogliono esserlo per grazia della rivoluzione. il Duca d’Orléans è framassone, anche il Principe di Carignano lo fu… adulate questi ambiziosi d’essere popolari…Fatene dei massoni. La loggia li condurrà al carbonarismo…le Logge formano a loro insaputa il nostro noviziato preparatorio… i borghesi vanno bene, i prìncipi ancora meglio, purché questi agnelli non si cambino in volpi, come l’infame Carignano.[iv]

  Crétineau-Joly tuttavia non scrisse tutto quello che sapeva. Secondo l’anonimo estensore de “La Civiltà cattolica”, infatti, nell’autunno del 1846, di ritorno da Vienna carico di documenti, accingendosi, su ordine di papa Gregorio XVI, a scrivere la storia delle sette, si fermò a Genova qualche giorno: “carlo Alberto, che si trovava in quella città, ebbe con lui un colloquio segretissimo; e un abboccamento lungo e importantissimo ebbe pure con il Conte Solaro della Margarita[v]. In breve, il Crétineau non pubblicò quello che sapeva, ed ebbe la croce de’ SS. Maurizio e Lazzaro: lo sappiamo di scienza certa.”[vi]

  3. Giorgio Briano, nella sua biografia del marchese carbonaro Roberto D’Azeglio, ricorda come questi, legato a Carlo Alberto da stretta amicizia, ricevette l’ordine di guadagnarlo alla setta. “E Azeglio – scrive il Briano, che seppe i ragguagli dalla viva voce del marchese – non isdegnò il difficile incarico, posciaché, ritiratosi fin dal 1815 dal servizio militare, non vedeva altro modo di adoperarsi efficacemente per una causa, che stava in cima a tutti i suoi pensieri. Infatti seppe così bene avanzarsi nell’animo del principe, indovinarne l’indole e i segreti pensamenti, che ormai tra i due non era più altra distanza che del grado.”[vii]

  4. esiste un’autobiografia manoscritta del carbonaro Eleuterio Felice Foresti (1798-1858) nella quale l’autore scrive: “…la più vasta, la più potente di queste società segrete cospiranti fu quella detta dei Carbonari. A questa ebbero parte le classi più elevate della nazione, nobili, cittadini facoltosi, uomini di lettere e scienze e belle arti, antichi ufficiali di Napoleone, magistrati e dei sacerdoti, e persino gli eredi di due troni italici – Alberto di savoia, padre dell’attuale Re del Piemonte, ed il Duca di Calabria, figlio di Ferdinando I di Napoli.”[viii]

 

3. La rivoluzione del 1821 in Piemonte

 

In Piemonte gli elementi moderati del patriziato subalpino volevano coinvolgere la dinastia sabauda nella rivoluzione, a patto che concedesse una costituzione liberale. Il piano consisteva nel convincere il re Vittorio Emanuele I (1759-1824) ad accordare la Costituzione e marciare su Milano, per cacciarne gli austriaci. nel frattempo i settari lombardi si sarebbero sollevati e avrebbero gridato Vittorio Emanuele Re costituzionale dell’Italia del nord. Erano della congiura alti ufficiali sabaudi come il Conte Santorre De Rossi di Santarosa (1783-1825) l’aiutante di campo del Re, Carlo Asinari di San marzano (1791-1841) e lo scudiero del principe di carignano, Giacinto Provana di Collegno (1794-1856).

 Il Santarosa doveva prendere accordi con il giovane Carignano. Carlo Alberto non nascondeva simpatie per la fazione rivoluzionaria. Non fu quindi difficile al santarosa persuadere il giovane principe a aderire al piano settario. Egli doveva a sua volta indurre il Re a concedere la Costituzione e scatenare la guerra all’Austria. Carlo alberto, però, di fronte all’avversione di Vittorio Emanuele per i progetti carbonari, s’intimorì, e cominciò a tentennare, cercando di differire l’impresa. I settari, esasperati dal comportamento del principe e timorosi dell’Austria, che in poco tempo e senza incontrare resistenza, stava soffocando la rivolta nel napoletano, ruppero gli indugi e il 10 marzo 1821 alcuni ufficiali della guarnigione di Alessandria si ammutinarono, imitati da altri sparuti reparti in Torino, al grido di Evviva la Costituzione e Viva Vittorio Emanuele I Re d’Italia.

  Il Re rimase fermo nel suo rifiuto e abdicò in favore del fratello Carlo felice (1765-1831) che in quei giorni si trovava a Modena, lasciando il Carignano come reggente. Carlo Alberto allora diede la costituzione, mentre Santarosa lo scongiurava di guidare l’esercito in Lombardia. Nonostante l’inopinato vantaggio, la congiura languiva: poche erano le truppe che si erano ribellate, non più di qualche migliaio; Torino era rimasta indifferente ai sollevati. Nelle province la massa del popolo non rispose affatto agli appelli dei rivoluzionari. Anzi i Carabinieri reali avevano tentato una controrivoluzione e ad Alessandria i soldati minacciavano di fucilare gli ufficiali carbonari, se non desistevano dalla sollevazione.

  Il nuovo Re si dimostrò di tutt’altra tempra rispetto al fratello. Il 16 marzo giungeva a Torino, come un fulmine a ciel sereno, un proclama di Carlo Felice, che dichiarava ribelli gli aderenti alla rivoluzione e sconfessava l’operato del cugino. Se Carlo Alberto non si fosse subito presentato a Novara, presso le truppe fedeli al monarca, sarebbe stato diseredato a vantaggio del suo primogenito ancora bambino. Il reggente, dinanzi all’ordine perentorio, abbandonò la partita e raggiunse Novara. Il piccolo esercito carbonaro, guidato da Santarosa, si accinse ad entrare nel milanese, sperando di ricongiungersi con i ribelli lombardi, ma, nei pressi di Vercelli, l’8 aprile 1821, l’armata imperiale li disperdeva con facilità. Finiva così in un fiasco completo la prima rivoluzione ‘italiana’.

 

4. Carlo Felice e Carlo Alberto

 

Il Congresso delle potenze della Santa Alleanza, che si riunì a Verona dal settembre al dicembre 1822, confermò il principio d’intervento a difesa dell’ordine legittimo e, in particolare, affidò alla Francia l’incarico di restaurare il re spagnolo nel pieno esercizio delle sue funzioni. Si trattò anche, a lungo, su insistenza del Re di Sardegna, la questione della successione nel Piemonte. Carlo felice era, infatti, intenzionato a diseredare il nipote. alla fine tuttavia si convinse a mantenerlo sub condicione nell’ordine di successione. Il congresso non determinò a quali condizioni il principe di carignano avrebbe mantenuto il diritto al trono, lasciandone l’individuazione al Re. Questi, infatti, stabilì che Carlo Alberto, per cancellare l’onta del Ventuno, partecipasse alla prossima spedizione militare in Spagna, e giurasse solennemente dinanzi all’Imperatore austriaco che mai, una volta sul trono, avrebbe concesso una Costituzione, come, infatti, avvenne a Genova nel 1825. In che considerazione tenne poi Carlo Alberto quel solenne giuramento, provano le vicende del ’48.

  Vale la pena di approfondire queste poco conosciute vicende sulla stregua di quanto ne scrive con cognizione di causa “La Civiltà Cattolica”. L’anonimo autore del saggio dedicato alla genesi dello Statuto albertino del 1848, dedica numerose pagine per individuare, appoggiandosi a documenti certi, “quali fossero le promesse o il giuramento, che obbligavano Carlo Alberto a non modificare le forme dell’antica monarchia, quali le aveva ricevute da Carlo felice e quali egli stesso si era impegnato di conservare intatte.”[ix]

  Dopo la concessione delle prime riforme liberali da parte di Carlo Albereto nell’ottobre e novembre 1847, Cesare Balbo pose mano alle sue Lettere politiche. Nella lettera sesta, il noto scrittore cattolico-liberale si rivolse al re di sardegna, per incoraggiarlo a concedere la Costituzione. Balbo inviò il lavoro a carlo Alberto, il quale gli fece portare, in ringraziamento dell’omaggio, la seguente enigmatica risposta: “Quale conto abbia a fare un cristiano di un vincolo che equivalesse ad un giuramento?”[x] Per quel che se ne sa, questa è la testimonianza più certa che attesta l’esistenza della famosa promessa.

  Dopo gli avvenimenti del 1821 l’idea e il proposito di togliere al Principe di carignano la corona – scrive “La Civiltà Cattolica” – occupò le menti di molti, e fu oggetto di lunga e varia controversia. Se ne occupò la corte di Re Carlo Felice e quella di Vienna: soprattutto se ne occupò la stampa di un partito, che si dice liberale, e dalle penne liberali se ne fece un’arma avvelenata contro l’Austria e il Duca di Modena, e possiamo aggiungere contro la verità storica dei fatti. […] La rivoluzione che nel 1821 era stata debellata e vinta più che dalle armi conservatrici del Piemonte, dai consigli e anche dalle armi dell’Austria; la rivoluzione abbracciò subito la causa del Principe di Carignano e se ne servì come di uno strumento potentissimo di rappresaglia nazionale contro l’austriaca prepotenza. e il disegno di scoronare l’erede presuntivo di Carlo Felice fu senz’altro attribuito all’Austria e ai consigli interessati di Francesco IV, duca paventato ed aborrito da tutti i liberali peggio che la versiera [strega]. Per vari anni quella diceria riempì le bocche dei curiosi e degli interessati, e formò come a dire un primo strato, che consolidatosi poi a poco a poco e rinforzato di nuove aggiunte, doveva costituire la base incrollata di tutto l’edificio, innalzato negli anni seguenti dagli storici moderni. Così, dalle dicerie passata nelle opere scritte, l’idea concepita dall’Austria, di diseredar Carlo Alberto in favore del duca o della duchessa di Modena, divenne un dogma nella storia contemporanea.[xi]

  Interrogandosi, poi, lo storico de “La Civiltà cattolica”, su chi fosse all’origine di quelle dicerie e menzogne, che accusavano falsamente l’Austria e il Duca di Modena di voler escludere il Carignano dalla successione piemontese, rispondeva indicandone l’origine nella “rivoluzione vinta” e nelle “gelosie della Francia” che mal sopportava la supremazia imperiale in Italia e soprattutto nel regno sabaudo.[xii]

 Come andarono effettivamente le cose?

  Nel marzo 1821, Carlo Felice, Duca del Genovese e fratello minore del Re Vittorio Emanuele I, si trovava a Modena. Presto gli giunsero le nuove di quel che accadeva nel regno sardo: la rivolta militare scoppiata a Torino il 10 marzo, consimili esplosioni nelle altre città principali, e soprattutto ad Alessandria, la debolezza del Re e dei ministri nel soffocarla, la richiesta dei carbonari ribelli della Costituzione spagnola, l’abdicazione del Re a favore di lui, la reggenza di Carlo Alberto, la concessione dello Statuto, l’amnistia per i reati politici, la costituzione di una giunta costituzionale, la fuga del re travolto dagli avvenimenti.

   Carlo Felice era giunto al trono per una via davvero inaspettata. I suoi pensieri furono subito occupati dal programma di stroncare la rivoluzione, prendendola di petto, e di ridare al fratello la corona, che aveva tanto debolmente difeso. Così il 16 marzo 1821 lancia un proclama col quale disapprova fortemente la concessa Costituzione e la giunta costituzionale, dichiara felloni e ribelli i congiurati, revoca tutti gli atti del reggente principe di Carignano, e invita i popoli del Piemonte a rinsaldare la loro fedeltà attorno all’antica monarchia sabauda. Ordina quindi al Generale De la Tour di concentrare a Novara l’esercito e di condurlo contro i ribelli; chiede inoltre, fedele ai princìpi della santa Alleanza, il soccorso alle truppe imperiali di stanza oltre il Ticino, comandate dal Generale Bubna, che occupano Alessandria e sconfiggono l’8 aprile a Vercelli i pochi insorti comandati dal Santarosa.

  Nel giro di un mese la rivoluzione è stata stroncata, così che Carlo felice ai 16 d’aprile poteva scrivere al fratello: “La battaglia di Vercelli [8 aprile] non è stata che una scaramuccia, poiché i bricconi se la sono quasi subito data a gambe levate; me ne è stata fatta una descrizione un po’ ampollosa, per render la cosa più bella…ho nominato una commissione militare per giudicare i colpevoli; il paese e l’esercito saranno assolutamente purgati, e non vi è che la fermezza che possa raddrizzare le cose e far felice il mondo. Trentadue anni d’esperienza ce l’hanno ben insegnato.[xiii]

  I ribelli riuscirono quasi tutti a fuggire, o forse furono lasciati fuggire, appartenendo ad alcune delle famiglie più nobili del regno subalpino, e furono condannati in contumacia. Soltanto due subirono la pena capitale.

  Il nuovo Re volle però colpire la rivoluzione nel suo principale agente, le sette segrete, e il 5 ottobre 1821 emanò un solenne editto, ove si leggeva: “I rivolgimenti ch’ebbero luogo nei nostri Stati, come in altre contrade ebbero tutti una causa comune, l’introduzione cioè delle Società Segrete, il cui scopo è di turbare la tranquillità pubblica, di atterrare i Governi legittimi, di provocare la corruzione dei costumi e il disprezzo della nostra santa religione. è per questo che noi abbiamo riconosciuta la necessità di prevenirne le funeste conseguenze.[xiv]

  Il 13 di quello stesso mese indirizzò alle popolazioni un proclama, ove indicava le linee di governo: “La nostra santa Religione sarà la sola guida infallibile delle nostre decisioni…La giustizia sarà il nostro fine costante; la fermezza la nostra regola, e, a tempo opportuno, assoceremo loro la clemenza.[xv] Il 17 ottobre infine dopo sette mesi dallo scoppio della rivoluzione, Re Carlo Felice faceva il suo ingresso a Torino. “Il Re di Sardegna – scriveva da Vienna l’ambasciatore sardo Conte di Pralormo al ministro degli esteri De la Tour, riassumendo un’unanime opinione - è stato l’unico sovrano a guardare in faccia alla rivoluzione, e a non transigere con essa.[xvi]

  Si trattava ora per il Re di adempiere il compito più difficile. Quale atteggiamento assumere infatti verso il suo erede, che figurava tra i principali promotori della congiura? Carlo Felice sapeva delle inclinazioni liberali del cugino, e non aveva fatto misteri della sua poca simpatia per le maniere e l’indole di Carlo Alberto. Tuttavia mai si sarebbe aspettato che un principe del sangue dimostrasse tanta dissennatezza, da divenire il nemico principale di quelle prerogative regie, che un giorno era destinato a rappresentare. “Per tanto l’impressione cagionata nell’animo di Carlo Felice da quella notizia fu così acerba, che concepì pel Carignano il fiero proposito di tenerlo lontano dal suo cospetto, di voler legittimamente venire a chiaro della sua colpabilità, di privarlo della successione alla corona. E quest’ultima risoluzione non depose pienamente dall’animo se non dopo le prove di quattro anni…[xvii]

  Il Principe Reggente Carlo Alberto non appena ebbe concesso, firmato e giurato la Costituzione nel fatidico marzo 1821, inviò a Modena presso il nuovo Re il suo scudiero Silvano di Beauregard, non tanto per notificare a Carlo felice l’avvenuta concessione, quanto per spingere il nuovo sovrano ad accettare e confermare la situazione politica. La mattina del 16 marzo il Beauregard si presentò al Re con una lettera del Reggente. Carlo felice lo accolse col volto corrucciato, non disse parola, e gettò la lettera del nipote in faccia allo scudiero. Ritornato in udienza, qualche ora dopo, il Sovrano lo accolse più urbanamente, e gli diede l’incarico di portare a Torino il proclama del 16 marzo, che annullava tutti gli atti dell’Interregno. Lo scudiero, assicurando il Sovrano della completa sottomissione e ubbidienza del reggente, provò a convincere il Re a scrivere qualche parola a Carlo Alberto per dimostrargli che non era completamente caduto dal favore reale. Carlo Felice però gli disse: “Ebbene, ditegli che se gli è ancora rimasta nelle vene una goccia del nostro sangue reale, deve subito partire per Novara e attendervi i miei ordini.[xviii]

  Carlo Alberto ubbidì, abbandonò i congiurati al loro destino, e raggiunse l’esercito regio a Novara. Qui lo attendeva un dispaccio del Sovrano che gli intimava di trasferirsi in Toscana presso il suocero, Ferdinando III. Il Carignano obbedì ancora una volta, e il 30 marzo si avviò verso Firenze. Prima però, volle passare per modena, per tentare di incontrare il Re, ma questi non volle riceverlo. Nella capitale toscana giunse il 2 aprile 1821, dove l’attendeva una nuova umiliazione. Anche il Granduca infatti non volle ospitarlo a Palazzo Pitti, e dovette alloggiare in un albergo.

  Carlo felice a Modena gli aveva fatto consegnare una lettera datata 31 marzo, ove si leggeva: “Nipote mio, vi ho già detto per mezzo del Cavaliere de Morette che sono stato assai contento della vostra perfetta obbedienza. Non credo di dovervi vedere in questo momento, essendo gli eventi accaduti in Piemonte troppo recenti e potendo dar luogo il mio incontro con voi ad ogni tipo d’interpretazione, che non mancherebbe di nascere. potete esser certo che non ho agito mosso da alcuna passione, e che non faccio che seguire il disegno che il mio onore, la sicurezza del paese e la tranquillità dell’Europa esigono…Spero un giorno di potervi far conoscere un cuore e dei sentimenti che mai avete conosciuto in me, poiché la vostra giovane età e i princìpi tutti opposti ai miei, nei quali siete stato allevato, non vi hanno mai permesso di comprendermi.[xix]

 

5. La risoluzione del Re

 

Carlo Felice ha quindi un “disegno”. Vuole conoscere fino a che punto Carlo Alberto si sia compromesso con la Rivoluzione. qualora la sua colpa sia certa, sacrificate anche le ragioni di famiglia, intende diseredare il suo erede. “Terrà quindi come sequestrato in esilio il Principe di Carignano, non lo ammetterà al suo cospetto e molto meno non gli restituirà la sua grazia sovrana, se non dopo che le azioni di lui ne lo abbiano reso meritevole al cospetto dell’Europa, se non quando, ammaestrato infine dalla severa lezione e lunga, porgerà al Re, alle potenze alleate e alla nazione garanzia solenne di non future mutazioni nelle forme dell’antica monarchia sabauda.”[xx]

  Carlo Felice, quindi, ordinò alla sua diplomazia, e soprattutto all’ambasciatore presso la corte di Vienna, Conte di Pralormo, di preparare il terreno per comunicare alle potenze straniere la sua intenzione di diseredare l’erede presuntivo della sua corona. Ecco come il Conte Pralormo, all’atto di partire per Vienna, descrive in terza persona l’udienza avuta col Sovrano, ove ricevette quella segretissima commissione: “L’udienza di congedo, che fu anche la prima, che questo Monarca abbia accordato al Conte di Pralormo, dopo il suo ritorno da Modena, ebbe luogo ai primi di gennaio [1822]. Dopo qualche frase insignificante, Re Carlo Felice disse al Conte che oltre alle istruzioni generali che aveva lui rimesse attraverso la Segreteria, aveva anche degli ordini particolari da dargli,

  Gravissimi motivi e di coscienza, disse il Re, la cura che devo dare alla prosperità presente e futura dei miei sudditi, mi hanno fatto prendere la risoluzione immutabile di escludere il Principe di Carignano dalla successione alla Corona, e di farla passare ai suoi figli secondo l’ordine di nascita. Questa decisione, alla quale sono irrevocabilmente determinato, potrebbe far sorgere delle incertezze in futuro, se non venisse sanzionata dagli alleati, esigo di conseguenza da voi, Conte Pralormo, che poco dopo il vostro arrivo a Vienna, e nel momento che vi sembrerà più opportuno, facciate conoscere questa mia decisione al Gabinetto imperiale, e vi accordiate con esso sui mezzi per assicurarne l’esecuzione.[xxi]

  Il Conte rimase allibito a queste gravissime parole. Quindi ribatté che la decisione sovrana avrebbe trovato senz’altro opposizione tra le altre potenze, poiché infirmava una delle leggi fondamentali dell’antica monarchia e del sistema della Restaurazione. Il Sovrano rispose che, a suo giudizio, nessuna delle corti straniere aveva validi motivi per sostenere le eventuali pretese al trono del Carignano, e “…che non s’era deciso con leggerezza, ma dopo mature riflessioni e per motivi di coscienza, di cui doveva render conto solo a Dio, ma che voleva far conoscere agli Alleati in caso di bisogno a tempo e luogo.”[xxii] Poiché il Pralormo tentò ancora di replicare, avanzando la grande responsabilità che avrebbe gravato non solo sul Sovrano, ma anche sui collaboratori che avrebbero cooperato a quello scopo, “il Re prese allora un’aria severa, e pronunciò le seguenti parole: Quando i Re si sacrificano per dar riposo e tranquillità ai loro sudditi, hanno il diritto d’esigere che i sudditi, quelli soprattutto che s’onorano della loro confidenza, si compromettano per secondarne i desideri.[xxiii] L’ambasciatore dinanzi a tanta determinazione, chiese soltanto di avere un ordine formale per iscritto, che Carlo felice gli fece subito ottenere.

 

6. L’Austria e la questione della successione sarda

 

Pochi giorni dopo il suo arrivo a Vienna, l’ambasciatore piemontese comunicò al Principe di Metternich la risoluzione del Re di Sardegna. Il Cancelliere imperiale giudicò gravissimo l’affare, e volle conferirne subito con l’Imperatore Francesco I.  Il Sovrano austriaco rispose a Pralormo che, essendo il Re la fonte della giustizia, poteva benissimo far giudicare il nipote ed applicargli le pene previste dalla legge, qualora fosse stato giudicato colpevole. “La misura in questione tuttavia [ossia la perdita del diritto di successione] non sarebbe stata considerata come un giudizio, ma come una misura eccezionale, che dovrà avere tutto il suo effetto in un momento in cui il Re non avrà alcun mezzo per farlo eseguire, cioè dopo la sua morte.”[xxiv] Un provvedimento così grave, dunque, per essere veramente efficace, necessiterebbe anche dell’approvazione delle altre corti europee. Prima di venire a tale determinazione, però, le altre potenze, vista la gravità del passo, vorranno avere la certezza dell’effettiva compromissione del principe, sentirne l’eventuale discolpa ed esperire ogni via di conciliazione. Metternich inoltre scrisse che “l’Imperatore per primo crederà di commettere la più palese ingiustizia, se si agisse altrimenti verso chicchessia, ma più particolarmente ancora nei riguardi di un Principe che era lui legato da vincoli di sangue. Di conseguenza, in primo luogo e senza poter pronunciarsi in alcun merito al riguardo, impegnava il Re a far conoscere all’Imperatore le prove autentiche dei fatti, sui quali si basava la decisione di Sua Maestà.”[xxv] Come si vede la corte imperiale volle procedere con grande circospezione e prudenza, nonché spingere Carlo Felice a diseredare il nipote a vantaggio della Casa d’Austria.

  Vienna inoltre ordinò al Generale Bubna di conferire a voce con il Sovrano, per significarli la medesima risposta, cosa che il militare fece nel marzo del 1822. Bubna riferì a Pralormo l’esito dell’abboccamento col Re sardo: “Il Re s’era mostrato inflessibile nella sua decisione, ripetendo sempre che le Potenze Alleate avrebbero avuto più interesse di lui ad appoggiarlo, ma che quando gli era stato chiesto di addurre dei fatti, Sua Maestà non aveva potuto produrre altro che il suo convincimento e delle allegazioni generali, e che aveva finito per chiedere al Generale Bubna, che il Gabinetto viennese gli comunicasse i testi dei processi [contro i carbonari] di Milano e Venezia, nei quali potevano trovarsi dei fatti che avrebbero comprovato la sua decisione.”[xxvi] Ma né nel 1822, né nel 1825, l’Austria trasmetterà i verbali dei processi contro i carbonari del Lombardo-Veneto.

  Si profilavano così due posizioni.

  Quella del Re sardo, che voleva che le Potenze della Santa Alleanza confermassero la sua decisione irrevocabile di diseredare Carlo Alberto a vantaggio del suo figlio primogenito. quella della corte austriaca, che voleva che il principe piemontese fosse sottoposto ad un regolare processo, che ne dimostrasse inoppugnabilmente la colpevolezza di lesa maestà, e solo in seguito, come estrema ratio, si procedesse alla diseredazione del Carignano, di cui, per essere veramente efficace, dovevano farsene garanti le corti europee. Tutto, comunque, era rimandato al prossimo Congresso di Verona, che doveva aprirsi nel settembre 1822.

 

7. Il Congresso di Verona (settembre-dicembre 1822)

 

La corte di Vienna decise, prima d’incontrarsi a Verona, di mettere al corrente del grave affare i sovrani alleati e i loro principali Ministri. Metternich compilò un memoriale, che consegnò agli alleati a Vienna, dove si erano riuniti, in procinto di partire per la città scaligera. Nel Memoriale, oltre a dare contezza dei passi diplomatici che erano intercorsi tra Torino e Vienna, s’esponeva anche il punto di vista dell’Imperatore.

  Il Pralormo, richiesto dal Metternich di aggiungervi qualche osservazione, ebbe modo di leggere il memoriale ancora nella minuta: “Il ministro Imperiale - scrive - esamina con una onorevole imparzialità i motivi che avevano potuto indurre il Re a concepire un tal progetto, le conseguenze che ne potevano risultare per l’Europa, e conclude che la misura alla quale il Re sardo voleva procedere, non poteva essere ammessa, e che le Corti alleate dovevano impegnarsi per favorire una franca conciliazione tra il Re Carlo Felice e l’Erede presuntivo della Corona.[xxvii]

  Il Congresso di Verona si aprì il 12 settembre.

  Carlo Felice vi giunse il 30 ottobre, ma della questione che gli stava tanto a cuore non s’iniziò a discutere che ai primi di dicembre. La linea al riguardo era già stata decisa da Vienna. Occorreva favorire la riconciliazione fra zio e nipote. La determinazione del Sovrano piemontese di diseredare Carlo Alberto era quindi stata rigettata. Metternich tuttavia volle appagare almeno in parte le esigenze del Re di sardegna. Per questo nel Memoriale di Vienna scriveva: “Noi crediamo nello stesso tempo che facendo questo sacrificio al principio della legittimità [ossia non ostacolando la salita al trono di un pessimo principe pur di tener saldo la legge fondamentale di successione] i Sovrani alleati dovrebbero cogliere quest’occasione per mettere delle condizioni al perdono del Re, che offrissero a S. M. sarda, ai suoi popoli ed ai suoi augusti alleati, garanzie della condotta del Principe di carignano per l’avvenire e che mettessero nello stesso tempo questo principe nell’impossibilità di diventare una seconda volta il giocattolo dei faziosi e d’essere trascinato da essi a rovesciare le leggi fondamentali dello Stato.[xxviii]

  L’idea del cancelliere imperiale fu accolta all’unanimità, ed anche Carlo felice dovette accettarla. Si trattava tuttavia ancora di determinare in concreto le condizioni per il perdono reale. A questo pensò lo stesso Carlo felice, che le espose personalmente ai sovrani alleati in dicembre. L’ambasciatore piemontese Pralormo ha conservato copia di questo breve Memoriale, che dettava a Carlo Alberto le condizioni per rientrare nelle grazie sovrane:

  Verona 10 dicembre 1822

  Osservazioni confidenziali e segrete del Conte di Pralormo sul progetto di riconciliazione ideato dal Re Carlo Felice relativamente al Principe di Carignano, e proposto da Lui ai Sovrani alleati riuniti a Verona.

  Questo progetto consiste in due punti separati e distinti:

1.      inviare il Principe di Carignano alla campagna di Spagna agli ordini del Duca d’Angouléme per comprometterlo, secondo le parole di Carlo Felice, agli occhi dei liberali.

2.      Fargli fare un giuramento solenne e per iscritto, dopo il suo ritorno dalla Spagna, dove s’impegna a non innovare nulla nelle basi e leggi fondamentali della Monarchia…[xxix]

  Il Conte si diceva soddisfatto del primo punto, ma giudicava insufficiente ed inutile il secondo. Anche altri convenuti al Congresso veronese tentarono di cassare la seconda condizione. il Re Sabaudo però tenne fermo, ed alla fine, essendo stata da lui accolta, in linea di massima, la tesi della riconciliazione, seppur condizionata, fu lasciato alla sua prudenza di determinarne le modalità d’attuazione. In questo modo il Congresso si scioglieva avendo in parte risolto ed in parte lasciata pendente la grave vertenza tra il Sovrano piemontese ed il suo nipote ed erede.

 

8. Il giuramento di Carlo Alberto (1824)

 

Carlo Alberto venne a sapere ben presto, dal suo esilio toscano, della guerra decisa a Verona contro la rivoluzione spagnola. Fin dall’inizio del 1823 inviò lettere al Re per chiedere il permesso di poter associarsi all’impresa bellica guidata dalla Francia. Carlo Felice però non diede subito il consenso. Voleva, infatti, facendogli chiedere più volte pubblicamente l’autorizzazione a partecipare alla guerra contro i liberali di Spagna, compromettere il proclamatore della Costituzione del 1821 con la causa della reazione ed ergere tra lui e la rivoluzione un muro invalicabile. Voleva inoltre che Carlo Alberto, ammaestrato dalla dura lezione che gli era stata impartita, nutrisse verso i princìpi rivoluzionari quello stesso aborrimento che era così naturale nel Re Sardo. Il Sovrano piemontese sperava insomma in una sincera conversione del cuore del nipote ed erede.

  I processi istruiti contro i ribelli del 1821 intanto dimostrarono, almeno giuridicamente, che il Carignano non era addentro nella congiura. Questo attenuò almeno in parte il sospetto del Re verso Carlo Alberto. 

  Finalmente, dopo due anni d’esilio, giunse all’esule il permesso di aggregarsi all’esercito francese che invadeva la Spagna (aprile 1823). Carlo Alberto era desideroso di dimostrare il suo valore in faccia all’Europa che teneva gli occhi puntati su di lui. In Spagna, il giovane sabaudo si comportò da eroe, ricevendo gli elogi universali. La prima condizione escogitata dal Sovrano piemontese per far rientrare il nipote nelle sue grazie, era stata assolta. Ora le potenze, Francia (presso la cui Corte Carlo Alberto soggiornava dopo la fine della guerra) ed Austria soprattutto, la prima per ingraziarsi il futuro sovrano di Sardegna, la seconda per sottrarlo all’influenza francese, sollecitavano Carlo Felice, perché finalmente, dopo più di due anni, volesse ricevere il Carignano al suo cospetto.

  La morte improvvisa del fratello del Re, Vittorio Emanuele a Moncalieri il 10 gennaio 1824, ritardò l’arrivo di Carlo Alberto, che poté rivedere Torino solo l’8 febbraio del 1824. il Re aveva ordinato al nipote di entrare in città di notte, perché il suo arrivo desse il meno possibile nell’occhio. Ancora una salutare umiliazione!

  Ora si trattava per Carlo Felice di eseguire la seconda parte del progetto: far giurare solennemente il nipote a non mutare in nulla l’antica costituzione della monarchia subalpina. Il Pralormo, interrogato dall’Imperatore Francesco I ai primi di novembre del 1824, su quali fossero le intenzioni del Re Sardo sulla questione del giuramento di carlo Alberto, gli rispose: “Sire […] il Re mio Padrone non ha mutato avviso riguardo al Principe. Le sue intenzioni a suo riguardo sono ancora quelle che ha annunciato a Verona. Si ripromette di richiamarlo presso di sé, ma prima vuol fargli sottoscrivere un atto, per il quale il Principe si obbliga a conservare intatte le basi fondamentali e le forme organiche della monarchia, tal quali le troverà al momento del suo avvento al trono. L’alta e completa confidenza, che il Re ha posto in Vostra Maestà, mi fa certo che non pensa di comunicargli quest’atto finché non ne sarà definita la stesura.[xxx]

  Il pomeriggio del 9 febbraio Carlo felice ricevette in udienza, dopo quasi tre anni che non lo vedeva, il giovane nipote. Secondo la testimonianza del cavaliere di Beauregard, che aspettava con altri tre gentiluomini in anticamera, il colloquio fu lungo e tempestoso.

  Ma quando fu sottoscritto il famoso giuramento?

  Ancora il ben informato Pralormo scrive: “al momento del ritorno del Principe di Carignano dalla sua campagna di Spagna, il conte di Pralormo fu incaricato dal Re Carlo Felice di comunicare all’Imperatore Francesco, che il Principe di Carignano aveva prestato solenne giuramento di non innovare in nulla le leggi e le basi fondamentali della Monarchia. Il Re aggiungeva che al primo incontro, avrebbe data comunicazione del giuramento all’Imperatore. L’incontro ebbe luogo a Genova nel 1825.[xxxi]

 

9. L’incontro di Genova (1825)

 

Riassumendo. Dopo il ritorno di Carlo Alberto dall’impresa spagnola, egli giurò solennemente con un atto formale e per iscritto, che mai avrebbe mutato l’antico assetto istituzionale della monarchia subalpina. Carlo Felice volle inoltre, per dare ulteriore ufficialità all’impegno del carignano e chiudere, per così dire, completamente la vertenza con lui, che s’incontrasse con l’Imperatore austriaco. Il che avvenne appunto nel 1825 a Genova.

  Che i sospetti del Sovrano piemontese verso l’erede non fossero del tutto spenti, lo dimostra il fatto che, ancora nel 1825, egli faceva richiesta, per mezzo del suo ambasciatore a Vienna, Conte Pralormo, di copia dei verbali del processo Gonfalonieri. voleva probabilmente sincerarsi definitivamente della colpevolezza o meno di Carlo Alberto nei fatti del Ventuno. L’Austria ancora una volta ricusò di trasmetterli.[xxxii]

  Nella primavera del 1825, comunque, Carlo Felice fece testamento (10 marzo) e su consiglio del suo confessore, Padre Grassi, riconobbe anche in quel documento, che raccoglieva le sue ultime volontà, il Carignano come erede e successore. Poi, il 13 aprile, si trasferì con la famiglia a Genova in attesa di Francesco I. il 24 maggio giunsero anche Carlo Alberto e la consorte.

  Il Principe di Metternich ha lasciato una descrizione dell’episodio.

  Dopo l’alzata di scudi che si fece in Piemonte per opera de’ rivoluzionari del 1820-21, il Re Carlo Felice avea fermato il proposito di privare della successione alla corona il Principe di Carignano, che si era fatto innanzi quale gonfaloniere della rivoluzione; e di trasferire i diritti di successione nel figliolo di lui.

  Il Re voleva, mancando un’ordinazione prammatica, determinare la successione ereditaria, e metterne l’adempimento sotto la sanzione e la malleveria dell’Imperatore Francesco.

  Ma l’Imperatore disapprovò cosiffatto divisamento. Egli era di parere – ed io consentiva con lui – che determinazioni di quella fatta portano sempre in seguito, di loro natura, inevitabili scompigli della pubblica quiete.

  Quando l’Imperatore Francesco nel 1825 visitava il regno lombardo-veneto, questo negozio trattatasi tuttavia per lettere.

  Il Re Carlo Felice offerivasi a fare di persona una visita in Milano all’Imperatore. Il quale colse allora il destro per influire sulla decisione del Re riguardo a quella questione non ancora terminata. Significò che il loro abboccamento sarebbe una cosa intesa, qualora il Re si fosse deciso a non toccare all’ordine stabilito nella successione al trono. Nel qual caso l’Imperatore preferiva, come luogo del loro ritrovo non Milano, ma la città di Genova. […]

  Il Re [Carlo Felice] mi espresse il dispiacere ch’egli provava in questa faccenda, mentre mi parlò così: ‘Ho ceduto alla volontà dell’Imperatore, sia per il rispetto che gli porto, sia per l’omaggio che rendo ai sentimenti che lo animano, e cioè l’ordine appoggiato sui princìpi e l’esperienza. Ciò però contro cui non so difendermi, è la convinzione che sarà l’Austria in particolare a dover lamentarsi di un uomo le cui idee sono interamente pervertite!’

  In quanto a ciò io gli feci intendere che l’Imperatore non si muoveva in questo negozio come spinto da qualche sentimento di fiducia nel Principe di Carignano; ch’egli aveva dinanzi agli occhi, nel trattar la questione della successione al trono, solamente la cosa in sé e non la persona dell’erede presuntivo; che insomma di due mali sceglieva il più piccolo.[xxxiii]

  Dopo aver accennato all’arrivo a Genova di Carlo Alberto, Metternich continua: “Dopo un’udienza da Sua Maestà [l’Imperatore] che durò più d’un ora, il Principe si recò da me, e s’intrattenne meco per tre ore. Era già notte avanzata, in modo che dovetti soprassedere fino all’indomani per presentarmi a Sua Maestà. L’Imperatore mi rivolse subito queste parole: ‘Su dunque, quale impressione ha lasciato in voi il Principe di Carignano!’ Io pregai l’Imperatore perché gli piacesse di non cambiare la serie cronologica delle cose, importandomi assai di conoscere l’impressione che il Principe aveva fatto a Sua Maestà nel lungo trattenimento avuto con lui.

  ‘Quanto a me, rispose l’Imperatore, nessuna favorevole impressione mi ha fatto il principe, e ve la posso esprimere in poche parole: il Principe è un parolaio e siffatta gente non m’ispira mai confidenza!’

  ‘Nelle parole di Vostra Maestà, soggiunsi io, è espressa a pennello l’impressione che ne ho riportato anch’io nelle tre ore di conversazione che ho avuto con lui.’

  ‘Con tutto ciò, proseguì l’Imperatore, non s’ha a fare altro in questo negozio all’infuori di quello che si è fatto.’ E quella stessa mattina l’Imperatore condusse il Principe dal Re. Carlo Alberto s’inginocchiò dinanzi al Re e con lagrime ne implorò il perdono.

  è all’Imperatore – prese a dire Carlo Felice – e non alla vostra nascita, né a me, cui voi siete debitore. Non dimenticatelo mai, non date mai occasione al vostro protettore di pentirsi della sua generosità.’

  Il Principe protestò altamente la sua ferma risoluzione.[xxxiv]

 

10. Carlo Alberto Re di Sardegna (1831)

 

Il 27 aprile 1831 moriva Carlo Felice.

  Il Principe di Carignano, allora trentatreenne, saliva su quel trono che una follia giovanile aveva rischiato di fargli perdere. I fantasmi di un ambiguo passato parvero però materializzarsi, quando il giovane sovrano ricevette una missiva dal capo della nuova carboneria, il terrorista Giuseppe Mazzini: “Gli Italiani – così scriveva il pugnalatore genovese – vogliono la libertà, indipendenza ed unione […] traggi, come Dio dal caos, un mondo da questi elementi dispersi, riunisci le membra sparte e pronuncia: è mia tutta e felice […] Sire, voi la nutriste cotesta idea […] voi vi faceste cospiratore per essa. E badate a non arrossirne.”[xxxv]

  Carlo Alberto non poté allora agire che in maniera diametralmente opposta alle speranze dei rivoluzionari. Gli occhi di tutte le Corti europee erano rivolte su di lui, osservandone ogni minima mossa. I tentativi mazziniani del 1833 e del 1834 furono quindi stroncati con pronta severità. L’azione decisa a recidere le trame della piovra mazziniana, indicarono con chiarezza, almeno all’esterno, che il giovane re aveva ormai dimenticato i suoi antichi trascorsi. “Così egli poté per quindici anni dissimulare l’antica animosità contro l’Austria, che covava nel ‘lago del cuore’ da tempo antico e solo a quando a quando per qualche repentina circostanza le diede esàlo in alcuna fiammata passeggera.”[xxxvi]

  La politica estera del Regno subalpino di quegli anni, infatti, seguiva le linee di una schietta adesione ai programmi della Santa Alleanza. Così, Carlo Alberto, sostenne, con armi, denaro ed il peso della sua diplomazia, il partito di Don Miguel in Portogallo e i Carlisti in Spagna, esponenti entrambi della monarchia antiliberale.

  Alcuni segnali, comunque, retrospettivamente individuati con finezza da Solaro della Margarita, per molti anni ministro di Carlo Alberto, segnalano come il Sovrano piemontese non avesse dismesso del tutto l’idea di una guerra all’Austria: “Intanto, come quegli che aspettava l’alzata sul cielo italico della ‘fatidica stella’, la cui sorgente doveva per lui precorrere di poco i sinistri bagliori del tramonto, rivolse tutte le sue cure alla formazione di un potente esercito. Ché se le fosche opere del ministro per la guerra [Villamarina] non risposero o se riuscirono inferiori all’aspettazione e non contentarono i periti dell’arte, non fu colpa sua. […] Con pari studio riattò e accrebbe la marina per guisa che verso il 1846 le forze di terra e di mare comparivano in un quadro veramente formidabile per il piccolo ma armigero Stato, ch’era il regno Sardo.”[xxxvii]

  A poco a poco, Carlo Alberto, che era abilissimo nel dissimulare e tener nascosti i suoi veri intendimenti, nel momento in cui il suo trono sembrava saldissimo all’interno e rispettato all’estero, cominciò a circondarsi di uomini tutti della fazione liberale: il marchese Villamarina, il conte Gallina, che partecipò ai moti del Ventuno: “Tale scelta - continua Solaro de La Margarita - mi fornì una prova che Carlo Alberto non inclinava a dare la direzione degli affari a persone che professassero opinioni veramente monarchiche[xxxviii], e ancora il conte Ilarione Petitti, il conte Federico Promis.

  Come se non bastasse, ben presto il Re Sardo iniziò, per mezzo di alcuni intimi amici, come il Conte Castagnetto, il Cavaliere Canna ed altri, a mantenere una fitta corrispondenza e strette relazioni con i maggiori fautori del liberalismo piemontese ed italiano. Così in Torino, continui erano i contatti con Cesare Balbo, esponente di spicco, si può dire, della fazione rivoluzionaria in Piemonte: “In lui mettevano capo – scrive “La Civiltà Cattolica” - tanto le informazioni esterne, come quelle che venivano da palazzo. Ed egli dal 1843 in giù fu il senno moderatore delle opinioni e dell’andamento della rivoluzione, di cui poté frenare le onde sparse e furenti, e raccoglierle in un alveo dove scorressero meno precipitose.” [xxxix]

 

11. Carlo Alberto e la religione

   

Il Carignano era sinceramente religioso, frequentava i sacramenti con pietà cristiana, leggeva e commentava la Bibbia, traendone salutari ammaestramenti, assisteva volentieri alle pubbliche funzioni. Tuttavia le sue convinzioni politiche prevalevano quasi sempre sulle idee religiose.

  La religione, infatti, non gli era stata insegnata fin da piccolo, e quando, finalmente, durante l’adolescenza, ebbe modo di approfondire le sue conoscenze dottrinali, non ricevette un insegnamento accurato teologicamente. Questa lacuna rese il suo cattolicesimo qualcosa di esteriore, senza convinzioni salde, e formalistico, più che profondamente convinto.

  A questo vizio d’origine della sua formazione religiosa, sono da addebitarsi le controversie in materia con la gerarchia cattolica, e soprattutto con l’Arcivescovo di Torino, Mons. Fransoni.

  Così nella questione di competenza giurisdizionale per la revisione ecclesiastica del 1835, per i cimiteri e per la forza obbligatoria delle sentenze ecclesiastiche nel 1836, per la soppressione delle decime al clero sardo nel 1840, per l’immunità ecclesiastica nel 1841, nell’introdurre nel regno le famigerate scuole di metodo, cui fece chiamare a primo istitutore il liberale abate Ferrante Aporti, Carlo Alberto sostenne sempre le tesi liberali, non temendo di scontrarsi col Fransoni. Anzi in quest’ultimo cimento, poiché il presule torinese aveva vietato al clero di frequentare quelle scuole, fondate in Lombardia ad opera di vecchi aderenti del Carbonarismo, il Sovrano andò su tutte le furie, e da quel momento i rapporti fra la massima autorità ecclesiastica e il Re Sardo si ruppero definitivamente.

 

12. La ‘cospirazione’ italiana e Carlo Alberto

 

Il Re Sardo era stato quasi travolto dalla corrente rivoluzionaria nel ventuno. Negli anni successivi alla salita al trono sembrava essersene definitivamente emancipato. Ora però, attorno al 1846, i continui fallimenti della massimalismo repubblicano di Mazzini, riportarono all’ordine del giorno della rivoluzione la necessità di esperire ancora la via moderata, monarchico-costituzionale, quella via che era fallita inopinatamente nel 1821 per il tradimento di Carlo Alberto e per ferma avversione di Carlo Felice. Ma ora i tempi sembravano maturi.

  La Carboneria, che con varii nomi ebbe tramato la cospirazione ‘italiana’ del 1821, aveva ceduto le spoglie e i suoi disegni alla ‘Giovine Italia’. E questa dopo le gesta dei Ruffini e dei Ramorino in spada e toga vide presto diradate le sue file, e verso il 1838 si era ridotta al verde, e per giunta, dopo il 1844, il fatto dei fratelli Bandiera l’aveva screditata e mandata in fondo. Tuttavia si contavano ancora diversi ruderi manipoli di società segrete, gloriosi veterani del Ventuno e del Trentatré, i quali dopo varie fortune si trovavano più tardi riuniti a Bruxelles in comitato segreto, di cui ebbe la direzione il marchese Arconati. E quando questi trapiantò altrove i padiglioni, gli sottentrò nella direzione a Bruxelles l’italiano apostata Gaggia, e morto costui per apoplessia fulminante, ne fu ‘condottiero’ l’abate Gioberti. La società aveva nome di ‘Veri Italiani’. In Piemonte e in Toscana si trovavano varii affiliati alla Giovine Italia; in Lombardia i vecchi congiurati del trenta e del trentaquattro avevano fondato la società dell’Unione (Club dei Lions) e nelle Romane le sette formicolavano […].

  Erano forze disperse senza unità d’intesa, senza disciplina di mosse, senza speranza di riuscita, senza uno scopo determinato. In torino si pensò di organizzare quelle forze sparse e rivolgerle a quell’unità di scopo, ch’era stato comune a tutte le sette: nazionalità libera indipendente. A superare le difficoltà della riuscita tutti vedevano tornar vane oramai le rivoluzioni armate e le secrete congiure. E in quella vece, per l’effettuazione del nuovo procedimento, giudicarono prima di tutto necessaria la scelta di un capo, di un potente, di un principe italiano con esercito e con altri mezzi. La scelta di questo principe, tra tutti quelli che allora tenevano regno in Italia, cadde a occhi chiusi, si può dire, di tutti, sul Re di sardegna.

  Si trattava poi di dare esecuzione al vasto, quanto ingegnosissimo divisamento: affratellare i popoli e congiungerli in unità di aspirazione naturale, di unire e affiatare i capi delle sette per dirigere a quello scopo le grandi leve delle masse e la terribile potenza della pubblica opinione. Per ciò si decisero e in verità furono per molti anni spesi incredibili sforzi, d’industria e di denari, in viaggi, pubblicazioni e congressi imprima; e quindi si usarono le dimostrazioni popolari, il giornalismo, la guardia civica, la cacciata dei Gesuiti, lo Statuto, la guerra! Vi fu dunque una cospirazione ‘segreta’, la quale si agitò nel centro di un’altra cospirazione ‘aperta’, nazionale e solenne, di cui la prima diresse le mosse a una a una, ne maneggiò in secreto tutte le fila che si muovevano all’esterno e ne regolò le varie fasi per lo spazio di un decennio sino al 1848.[xl]

 

13. Rivoluzione ‘culturale’ in Piemonte

 

i primi mezzi di propaganda dell’idea rivoluzionaria furono le associazioni scientifiche. La prima apparve nel 1841 col nome, apparentemente inoffensivo, di Club de la socièté du Whist. L’anno dopo, 1842, ne nacque una seconda, l’Associazione agraria. D’entrambi fu fondatore o esponente di rilievo, Camillo benso di Cavour. Il Re sapeva bene il vero scopo di quei consessi. Soprattutto la seconda ebbe notevole successo.

  Scrive il Predari: “Renderli [i coltivatori] elementi di edificazione sociale era il suo scopo morale. Avviare i popoli a grandi imprese, promovendo l’unione delle forze…, affratellare le province e le città nei congressi, educare i cittadini alla pubblicità e alla discussione era il suo scopo politico.”[xli] L’Associazione agraria raggiunse i quattromila iscritti, tra i quali figurava il figlio primogenito del Re, Vittorio Emanuele; ebbe una sua biblioteca, e pubblicò riviste. Infine il Sovrano ne fece un’istituzione regia, ponendovi alla presidenza un suo uomo, il marchese Cesare Alfieri di Sostegno, vecchio cospiratore del Ventuno. “In essa si fece esperimento anticipato del gioco parlamentare e vi si poterono scorgere i primi embrioni del parlamentarismo con le sue libertà discordi, con la fecondità delle ire di partiti, con l’altalena o l’alza e cala vicendevole di Gracchi e di Marcelli.”[xlii]

  La rivoluzione culturale continuò con la pubblicazione dell’Enciclopedia popolare, ideata appunto, come dice senza ambagi, il Predari, che ne fu direttore, per servire “di validissimo e non sospetto strumento di propaganda politica.”[xliii] N’era presidente Cesare Balbo, il capofila dei cattolici-liberali piemontesi.

  Nacque in seguito, con medesimo intento, l’Antologia Italiana, che voleva essere la ripresa ideale dell’Antologia del massone toscano Vieusseux. Scopo era tener vivo nel Piemonte il “fuoco patrio, che dovea ravvivarsi a poco a poco in tutte le altre province d’Italia.[xliv]

  A queste pubbliche istituzioni, che godevano tutte il favore di Carlo Alberto, si affiancarono, tra il 1843 e il 1846, varie pubblicazioni di opere, destinate “a spandere nel ceto colto di tutta la penisola le nuove aspirazioni e renderle quanto più fosse possibile popolari.”[xlv]

  Dapprima venne alla luce il Primato morale e civile degli Italiani dell’abate già mazziniano, Vincenzo Gioberti (1801-1852): “Non era in fondo se non un gigantesco sofisma, che diceva all’Italia ciò che si potrebbe dire del pari alla Turchia, alla Macedonia e alla stessa Beozia. Ma era tratteggiato con rara foga d’entusiasmo e con grandissima facondia, piena, anzi furente di amore pel patrio risorgimento e respirante concordia tra popoli e principi, tra religione e patriottismo.[xlvi]

  Ad essa venne dietro le Speranze d’Italia di Cesare Balbo (1789-1853), e i romanzi storici di Massimo D’Azeglio. La popolarità di queste opere di autori piemontesi diffuse in tutta la penisola le dottrine nuove e ve ne accrebbero i partigiani.

  Meno popolare, forse, ma più schietto nella sostanza, fu il saggio Des Chemins de fer en Italie, che Camillo Cavour pubblicò nel maggio 1846 sulla rivista francese “Revue mensuelle”. Il piemontese vi esponeva “non tanto il bene fisico del paese, risultante a pro del commercio dalle nuove linee ferrate, abbreviatrici delle distanze, quanto il bene ‘morale’ di tutta l’Italia, ch’egli già intravede ed esige senz’ambagi di frase giobertiane e senza velo di reticenze.[xlvii]

 A partire dalla seconda metà del 1846 il lavorio propagandistico si infittì, e molte altre opere vennero alla luce, come le Lettere politiche del Balbo, e il commento che ne fece Giuseppe Montanelli. A Parigi si stampava l’Ausonio, un giornaletto democratico, cui collaborava la settaria principessa Cristina di Belgioioso. E ancora videro la luce in quel torno di tempo i Pensieri sull’Italia di un Anonimo lombardo, che era Luigi Torelli; la question italienne del Canuti; Della nazionalità italiana di Giacomo Durando, Della sovranità temporale dei Papi del galeotti, ecc. “In tutti l’idea dominante era la riscossa dell’Italia per l’indipendenza nazionale,, in nessuno sostenevasi la distruzione del potere temporale. Ma questo era voto giurato nelle Vendite carbonaresche, e studiosamente dissimulato, per non ispaventare la coscienza del popolo. I maggiorenti solo ne erano informati a pieno.[xlviii]

  Tuttavia, come ammetteva candidamente l’Archivio triennale delle cose d’Italia: “Per Durando codesta era niente più che una manovra strategica […] Il guelfismo di Gioberti, Balbo e Azeglio non ingannava nessuno, tanto era grossolana quella finzione.”[xlix]

 

14. Trame nell’ombra

 

Alla propaganda si affiancò ben presto un’intensa opera cospirativa, per ordire le fila della rivoluzione italiana. A quest’importantissimo compito si dedicò Massimo D’Azeglio.

  D’Azeglio apparteneva ad un’antica famiglia piemontese. Suo padre Cesare era stato un importante esponente della controrivoluzione nel regno subalpino, il fratello Taparelli D’Azeglio era entrato nella Compagnia di gesù. Massimo, al contrario, si era dato per tempo alla Carboneria, per entrare poi nelle file mazziniane ed approdare infine al partito monarchico-costituzionale. A partire dal 1845, sfruttando la sua vasta conoscenza del mondo settario italiano, il piemontese cominciò a tessere le fila della cospirazione, che doveva portare Carlo Alberto ad essere il primo monarca costituzionale d’Italia.

 Durante l’estate di quell’anno, girovagando, sotto le mentite spoglie di pittore, per le Marche e la Romagna, riuscì a convincere la maggior parte dei caporioni delle sette, che Carlo Alberto, il voltagabbana del Ventuno, era ora affidabile e deciso a compiere l’impresa. In settembre D’Azeglio era in Toscana, dove molti aderirono al progetto monarchico-costituzionale.

  Tornato a Torino, D’Azeglio volle incontrare il Re, per metterlo a parte della sua attività. Carlo Alberto non si dimostrò affatto meravigliato, né diede segni di riluttanza, quando D’Azeglio gli narrò il buon esito delle sue mene negli Stati del Papa ed in Toscana. anzi il Sovrano subalpino gli disse: “Faccia sapere a quei Signori che stiano in quiete…siano certi che presentandosi l’occasione, la mia vita, la vita dei miei figli, le mie armi, i miei tesori, il mio esercito, tutto sarà speso per la causa italiana.”[l]

  D’Azeglio, ricevuto quest’incoraggiamento, volle incontrare i settari piemontesi. Si abboccò col Cornero, capo dei mazziniani torinesi, per convincerlo che “non v’era altro modo che spingere colle vie legali re e governi alle riforme, alle costituzioni, all’acquisto della nazionalità. Ci espose i molti colloqui avuti col re, i continui discorsi di questo, spiranti amor d’Italia ed odio mortale all’austriaco.”[li] Il Cornero, conquistato alla causa di Carlo Alberto, parte a sua volta per la Toscana e le Romane. poi è a Milano, dove, nonostante il lavorio settario fosse più difficile, per la continua vigilanza della polizia imperiale, gli riuscì tuttavia di riannodare i legami con i vecchi esuli del Ventuno, che vivevano tra Milano e Brescia.

 

15. Carlo Alberto getta la maschera

 

Secondo Solaro de La Margarita, già verso il 1845, l’andamento delle cose “cominciava a divenire imponente.”[lii] Il lavorio sotterraneo emergeva con sempre maggior spavalderia, ed ogni occasione era buona per diffondere il credo rivoluzionario. Anche i Congressi scientifici, che ogni anno, dal 1839, si riunivano in varie città d’Italia, servivano alla bisogna. in quello riunitosi a Genova nel settembre del 1847, il numero dei convegnisti fu eccezionale. Accanto a Gesuiti e Somaschi, sedevano ‘scienziati’ della tempra di un Girolamo Bonaparte, Principe di Canino, i quali tutti gettarono una ‘scientifica’ sfida all’Austria in nome di Pio IX e Carlo Alberto.

  Anche il Re sabaudo, solitamente così guardingo e misterioso, non faceva ora più mistero del suo pensiero. Nella sua corrispondenza pubblica e privata, l’antico odio anti-austriaco ricominciò a serpeggiare. A seguito di un piccolo incidente di confine sul ticino, scriveva, che, se l’Austria non cessava dalle prepotenze, avrebbe sollevato Piemonte e Lombardia con le campane a martello, per “marciare avanti alla testa del suo esercito, qualora la necessità lo richiedesse.”[liii] Nel saluto dato alla riunione dei Comizi agrari a Casale nel settembre 1847, risuonarono queste scoperte parole: “Aggiungete solamente che se Dio ci farà la grazia di poter intraprendere una guerra d’indipendenza, e sia io solo a comandare l’esercito, sono risoluto a fare per la causa guelfa, ciò che Schamil compie contro l’immenso impero russo![liv] Schamil (1797-18871) era un capo islamico del Daghestan, che si era ribellato ai russi, proclamando la guerra santa contro gli infedeli.

 

16. Carlo Alberto e Pio IX

 

I temerari pronunciamenti del Sovrano piemontese degli anni 1846-47 avevano una spiegazione. Un avvenimento aveva spinto il Re a manifestare sempre più chiaramente i suoi intimi intendimenti: la salita al soglio di Pietro di Pio IX.

  Clemente Solaro de La Margarita, come presago di quel che poteva accadere, scriveva: “Guai se per poco Carlo Alberto trova incoraggiamento in un nuovo Papa alle sue idee, non sarà più in mio potere trattenerlo, e non mi sbagliai.”[lv]

  Sarebbe lungo ripercorrere la china che, a poco a poco, cedimento dopo cedimento, condusse il nuovo pontefice a carezzare la rivoluzione, fino alla concessione della costituzione. Carlo Alberto osservava e seguiva con grandissima attenzione quel che succedeva a Roma. Sentiva gli elogi con cui artatamente i settari innalzavano al cielo Pio IX, quasi che il progetto di rinnovamento indicato da Gioberti – un papa alla guida del Risorgimento – si stesse per realizzare. Soltanto la religione ancora e i saggi consigli de La Margarita impedivano, infatti, al Re sabaudo di tentare l’avventura militare contro l’Austria, potenza cattolica e amica. quando vide, però, che il Pontefice stesso si poneva o sembrava porsi alla guida del movimento d’indipendenza nazionale, gli scrupoli di Carlo Alberto disparvero come neve al sole.

  I settari, da un lato, avevano buon gioco a convincere il re Sardo, che anche il Papa voleva estromettere l’Austria dall’Italia, e secondare il moto nazionale; dall’altro, diffondevano ad arte in tutta Europa, un’immagine del Pontefice solo in parte corrispondente alla realtà. Era una congiura del sorriso, quella insomma che spingeva quasi insensibilmente il recalcitrante Pio IX, e il più convinto Carignano, lungo i sentieri fioriti della rivoluzione nazionale e della guerra all’Austria.

  è indubitato – scrive lo Sclopis – che il rapido avviamento alle forme costituzionali, manifestatosi nei governi italiani fra il fine del 1847 ed il principio del 1848, è dovuto all’impulso venuto dal Vaticano, e comunicato a tutto il clero; e lo scrittore di queste pagine udì il Re Carlo Alberto ripetere anzitutto di là il motivo della pronta concessione dello statuto ai suoi popoli.”[lvi]

  Nell’agosto del 1847 un nuovo caso sembrò confermare Carlo Alberto nel proprio disegno. L’Impero, che teneva guarnigione in Ferrara, città pontificia, decise d’occupare tutta la città, come ad avvertire il Pontefice a non andare oltre nella sua politica di conciliazione con la fazione liberale. La santa Sede protestò vivacemente per quella che sembrava una flagrante violazione dei trattati. I rivoluzionari diedero fiato alle trombe per ingigantire l’incidente e rendere così possibile un’alleanza tra gli Stati della penisola, e soprattutto, tra il Papa e il Re del Piemonte, contro l’Austria.

  il Re Carlo Alberto, che ogni occasione spiava di cogliere in fallo l’Austria, ne godé insieme e ne fremette: soprattutto perché il Cardinal Ferretti [segretario di Stato di Pio IX], più ricco di spirito ecclesiastico che di accorgimento diplomatico, nel fervore del suo zelo, si era rivolto al marchese Pareto, ministro di Sardegna in Roma, affermandogli Carlo Alberto essere il solo alleato del santo Padre, il quale aveva ricusate le offerte della Francia, perché unicamente di lui si fidava. Informatone, il Re ne fu in giubilo. Tosto fece risapere al Papa che egli era pronto a’ suoi servigi ed alla sua difesa; in acconcio di mandare navi a guardia delle coste di Romagna, e beatissimo di riceverlo ospite nel suo Regno, quando, accesasi una guerra, Sua Santità non si credesse a sufficienza libera e sicura nella sua Sede.[lvii]

  Tuttavia sul finire dell’anno, la vertenza tra Santa Sede e l’Austria, fu ricomposta con soddisfazione d’entrambi. Il Sommo Pontefice volle così far intendere a tutti e soprattutto al Piemonte, che egli metteva ogni cura per mantenere la pace e renderla anzi sempre più stabile, e che non era affatto animato da sentimenti guerreschi.

 Il Re di Sardegna, tuttavia, si dolse della pace ritrovata tra Papa e Imperatore. Vedeva, infatti, allontanarsi una ghiotta occasione per scatenare, sotto il pretesto della difesa della Santa Fede e della cattolica religione, quella guerra per il possesso della Lombardia e la corona d’Italia, che ormai era la meta suprema del suo regno. Così disse, infatti, confidenzialmente al barone Bettino Ricasoli, venuto apposta da Firenze per conferire con lui sul risorgimento d’Italia, il 1° dicembre 1847: “Lei sa come resistei all’Austria, quando fu occupata Ferrara: io era pronto a muovermi in soccorso del Pontefice. Poi il Pontefice non si mostrò più risoluto. Ma io ero fermo; io solo, con la mia armata, senz’altri aiuti, avrei invaso la Lombardia. Che bella occasione era quella![lviii]

 

17. Carlo Alberto caccia Clemente Solaro de La Margarita (9 ottobre 1847)

 

I settari piemontesi, scorgendo ormai in pieno sole i pensieri intimi del Re, coglievano ogni occasione per invogliarlo al bivio senza ritorno. Il 2 maggio 1846, se ne ebbe una prima avvisaglia, quando Carlo Alberto si lasciò convincere a pubblicare una sorta di ultimatum contro l’Austria, per la questione dei sali. Subito i settari, guidati da Massimo D’Azeglio, organizzarono un’imponente manifestazione d’appoggio al Re e in favore della guerra. Solaro de La Margarita, tuttavia, ministro degli Esteri, riuscì a convincere il Sovrano a desistere da quei toni bellicosi, e la crisi rientrò dopo poco.

  La salita al trono di Pio IX, tuttavia, diede maggior peso ancora all’influenza dei liberali. “A furia di evviva, di canti, di glorie, di accompagnamenti festosi, di coccarde e di sbandierate, capitanate e dirette da quel futuro liberatore degli ebrei, che vedremo essere stato Roberto D’Azeglio, la pubblica cospirazione ottenne una prima vittoria trionfale nel giorno nove di ottobre 1847, nel qual giorno Carlo Alberto licenziò i due ministri della guerra e degli affari esteri, il Villamarina e il La Margarita: il primo per figura di accompagnamento, il secondo per vero principio politico.”[lix] Lo Sclopis commenta: “Ciò accadde non per cause particolari, ma come conseguenza di un nuovo indirizzo politico per il governo.”[lx] Andandosene, il Solaro, che fedele ai suoi solidi principi, aveva servito Carlo Alberto, per più di un decennio, gli lanciava un monito profetico: “La corona d’Italia non sarà in simili circostanze, che una corona mal acquistata, che presto o tardi sfuggirà dalle mani di chi la presa per tutt’altra volontà che quella di Dio.”[lxi]

 

18. Carlo Alberto e le prime riforme liberali

 

Dopo la caduta del La Margarita, bastarono quattro mesi ai settari per trionfare pienamente. Il Re, tuttavia, dovette rendersi conto del gran passo che aveva compiuto, dimissionando il Ministro degli Esteri. I rivoluzionari si accorsero di questo suo recalcitrare e modificarono un poco la loro strategia.

  Massimo D’Azeglio, che ne era il regista, scriveva il 22 ottobre 1847 a Domenico Pantaleoni: “balbo e tutti ed anch’io vediamo un solo rimedio da tentare. Egli è molto sensibile alla lode e più al biasimo. S’è abbastanza cantato inni per lui. È tempo di parlare con misura e dignità, ma con severità inesorabile. Ho passato la stessa parola in Francia, Inghilterra e Firenze. La passo a te, e la passerò a Bologna. È importante e urgente, se non vogliamo imbrogli …parlare d’influenza perduta…dell’opinione pubblica in Italia volta contro di lui e, questo è difficile trovar la frase, ma bisogna farlo sentire, del disprezzo in cui cade … Insomma o scuoterlo con severe lezioni o andar incontro a disturbi, Dio sa con che conseguenze.”[lxii]

  In quei giorni uscì anonima una feroce satira in titolata Re Tentenna:

Un re, che andava fin dalla balia,

pazzo pel gioco dell’altalena…

  Carlo Alberto rimase avvilito e irato per quell’attacco. Tuttavia la satira ottenne l’effetto desiderato. Smosse il sovrano dalla sua apatia, e lo lanciò lungo la folle china della rivoluzione.

  Dal 29 ottobre al 27 novembre fu concessa tutta una serie di riforme amministrative e civili: un magistrato di cassazione, l’abolizione di certe giurisdizioni speciali, trasferimento dal militare al civile delle funzioni di polizia; libertà di stampa, con censura preventiva da parte di commissioni provinciali. Queste concessioni erano accompagnate dal solito ‘spontaneo’ entusiasmo popolare. S’illuminano le vie della Capitale “con illuminazione spontanea, combinata prima” dice D’Azeglio, tra il serio e il faceto; si cantavano solenni Te Deum,; s’indicono processioni con fiori e bandiere; si tallonano il sovrano ovunque vada con simili festose accoglienze.

  Carlo Alberto, però, pur sempre geloso delle sovrane prerogative, pensava di bilanciarle con le pretese liberali, senza cedere nella sostanza i suoi diritti regali. I settari non tardarono a cogliere l’intimo accorgimento del Sovrano e si diedero da fare per eludere il pericolo. A questo fine adoperarono quell’arma che il Re con tanta leggerezza aveva loro posto in mano: la libertà di stampa.

  Nacquero in un battibaleno vari giornali liberali, che annoveravano tra i direttori e i collaboratoti, il fior fiore dei rivoluzionari piemontesi: L’Opinione era diretta da Giacomo Durando e Giovanni Lanza; La Concordia da Lorenzo Valerio; Il Risorgimento aveva per direttore il Cavour, e vi collaboravano Cesare Balbo, Roberto D’Azeglio, il Santarosa…Angelo Brofferio, invece, dirigeva, Le Letture di famiglia.  Il giornalismo liberale, quindi, poteva quasi senza ostacoli, influenzare il Sovrano e i ministri, e surriscaldare l’atmosfera, spingendo l’opinione pubblica a richieste sempre più esose.

  In questo clima, sul finire di quell’anno, a Genova le cose presero un andamento più vorticoso. I mazziniani, che vi erano numerosi, sia tra il popolo, che tra il ceto aristocratico, volevano più audaci riforme, per il nuovo anno: amnistia, guardia civica e diminuzione del presso del sale. Poiché non furono esauditi, si cercò un capro espiatorio, e fu presto trovato: i Gesuiti! Era loro la colpa se la monarchia non si decideva a venire davvero incontro ai bisogni del popolo.

  Così i seguaci di mazzini organizzarono all’inizio del 1848 un’imponente manifestazione contro i gesuiti genovesi. Volevano incendiare la casa della Compagnia di gesù e il Palazzo Tursi, che faceva da collegio. Il governatore della città, conte Palliacciu della Planaria, che aveva ricevuto ordine d’essere conciliante con i dimostranti, ottenne, tramite i buoni uffici della Società de’ moderatori, di tramutare la manifestazione di protesta in una pubblica sottoscrizione, che chiedeva la cacciata dei Gesuiti e l’istituzione della guardia civica. Il 7 gennaio una deputazione partì per Torino. Il Re tuttavia non la volle ricevere e consigliò ai deputati di tornarsene a casa.

  L’arrivo dei deputati genovesi, però, mise in fibrillazione i liberali della capitale. Quella sera stessa si riunirono. Volevano che l’iniziativa non cadesse nel vuoto. Fu Cavour che pronunciò la fatidica parola: si doveva chiedere la Costituzione.

 

19. Carlo Alberto si fa Re costituzionale (febbraio-marzo 1848)

 

Quel consesso d’aristocratici, giornalisti, borghesi, studiosi, riuniti in assemblea, sapeva molto di Costituente. Carlo Alberto, stretto tra la pubblica soddisfazione per i cedimenti, e le rispettose minacce dei settari per le sue impuntature, credeva forse ancora di riuscire a guidare gli eventi.

  coll’anno nuovo gli eventi precipitarono. Le trame settarie si fecero più fitte e il momento dell’azione si avvicinava a gran giornate. Gioberti ottenne che Mazzini e i suoi non intralciassero con avventate iniziative il corso fatale degli eventi. Massimo D’Azeglio riprese la girandola di peregrinazioni da un capo all’altro dell’Italia Centrosettentrionale.

  Nel regno di Napoli tutto era pronto. Il 12 gennaio si ebbe la prima scintilla che diede fuoco alle polveri con l’insurrezione di Palermo. A gran voce i settari meridionali chiedevano, anzi esigevano, una Costituzione.

  Il Re di Sardegna, però, non del tutto consapevole su quale polveriera era seduto, credeva ancora d’essere in grado di controllare la situazione. Il due gennaio 1848, scrivendo al Granduca di Toscana, suo cognato, diceva di volere “una forma di governo, nella quale il popolo abbia tutta quella libertà ch’è possibile colla conservazione delle basi della monarchia.”[lxiii] Il 20 di quello stesso mese ribadiva la stessa idea al marchese Roberto D’Azeglio, che ricorda: “E insistendo su tali idee, eretto della persona, e fissando lo sguardo sul suo interlocutore: Marchese D’Azeglio– disse il Re – voglio come voi la libertà dell’Italia, ed è per questo, ricordatevelo bene, che io non concederò mai una costituzione al mio popolo.”[lxiv] Mai parole, forse, furono smentite tanto radicalmente e in così breve tempo.

  Il 1° febbraio, dodici giorni dopo quel colloquio, giunse a Torino la notizia che a Napoli Re Ferdinando aveva concesso la Costituzione il 29 gennaio. Oramai la piazza manovrata dai liberali, invocava a gran voce anche per il regno subalpino la panacea costituzionale. Quella sera le piazze e le strade adiacenti la sede dell’ambasciata napoletana risuonarono degli schiamazzi di chi acclamava la Costituzione.

  Il giorno dopo, 2 febbraio, l’inviato britannico, Sir Abercombry, ebbe un abboccamento col ministro degli Esteri, San Marzano, consigliandolo sulla necessità di dare uno Statuto: “il temporeggiare comprometterebbe l’autorità del re e la repressione condurrebbe probabilmente ad un conflitto fra il governo ed il popolo.”[lxv]

  Quel medesimo giorno i ministri di Carlo Alberto si riunirono in conferenza per considerare i consigli inglesi, e decisero all’unanimità che, stante la situazione in ebollizione, era meglio convincere il Re a concedere uno Statuto.

  Il 3 febbraio comunicarono al Re il loro parere. Tutti ribadirono, seppure con qualche distinguo l’opportunità della Costituzione. Si decise che Carlo Alberto ne avrebbe discusso assieme ai ministri nella seduta del 7 febbraio 1848.

  Intanto, i rivoluzionari, i vari Cavour, D’Azeglio, Santa Rosa, ecc. erano informati di tutto quello che accadeva, dai loro amici a corte. Per questo, fu indetto una riunione del Consiglio comunale di Torino per il 5 febbraio, ma anziché trattare della petizione per ottenere la Guardia Civica, come era stato convenuto, i consiglieri discussero la richiesta della Costituzione. La proposta fu approvata con più di due terzi dei voti. Fu stabilita una Commissione che presentasse al Re, in perfetto tempismo, per il giorno 7 la richiesta della Costituzione.

 

20. La giornata del 7 febbraio 1848

 

Il giorno sette febbraio 1848 si riunì nella reggia la solenne conferenza, che avrebbe dovuto decisero la concessione o meno della Costituzione. Vi presero parte tutti i Ministri e altri dieci importanti personaggi politici, tra i quali spiccava il vecchio Conte De La Tour, e il Conte di Pralormo, già ambasciatore piemontese a Vienna. Mancava il Conte de La Margarita.

  Dopo un breve intervento introduttivo del Sovrano, alle nove del mattino, furono sentiti i pareri dei convenuti. Il De La tour, disse che a Torino la situazione poteva anche essere mantenuta sotto controllo, ma non così a Genova. Si lamentò che la libertà di stampa stava disgregando le basi della monarchia. Il marchese raggi fu ancor più esplicito nello stigmatizzare l’azione profonda dei settari. Sottolineò “l’obbedienza del popolo a ordini che partono da un’autorità sconosciuta, sia a Torino come a Genova. Si osserva di conseguenza che ci si dovrà liberare del giogo del governo occulto.”[lxvi] Anche il Cavaliere di Collegno era del medesimo avviso, riconoscendo le mene di un governo ‘occulto’, tuttavia crede che ormai “non si può impedire l’inizio di un nuovo ordine di concessioni.”[lxvii] Parlò allora il Conte di Pralormo, che era a conoscenza del solenne giuramento del re. Secondo l’ambasciatore la maggioranza dei sudditi sabaudi erano attaccati all’antico ordine di cose. Quella maggioranza tuttavia era tranquilla e inerte, di fronte all’attività di una piccola e agguerrita minoranza. Acconsentiva infine alla Costituzione, non per convinzione, quanto come male minore, vista l’impossibilità di scongiurare una rivoluzione: “Dichiara di consentire all’introduzione del sistema costituzionale, non come rimedio che creda efficace, ma come il solo mezzo che resta nella condizione disperata in cui si trova il paese.” [lxviii] solo il marchese Alfieri, ministro della pubblica istruzione, e cospiratore del Ventuno e cognato di Roberto D’Azeglio, giustificò dinanzi al Re l’opportunità politica di concedere uno Statuto: “La democrazia è un elemento potente dei nostri giorni, presso di noi la democrazia, che ha dei gravi interessi e che si sviluppa di giorno inn giorno, ha bisogno di manifestarsi.”[lxix]

  La riunione era ancora in corso, quando, alle quattro e mezza, giunse, come da copione, la delegazione comunale per chiedere la Costituzione. Carlo Alberto rimase molto sorpreso da quella mossa che non si aspettava. tuttavia, dissimulando il suo sconcerto, accolse benevolmente i delegati, solo chiedendo che sciogliessero l’assembramento che schiamazzava sotto le sue finestre.

  Allora la conferenza si sciolse, per riunirsi alle nove. Si continuò a discutere sugli articoli della novella Costituzione fino a notte alta.

 

21. La giornata dell’8 febbraio 1848

 

I settari (Cavour, Brofferio, Durando Santa Rosa) intanto, che attendevano con sempre maggior impazienza la nuova tanto attesa, riunitisi la mattina dell’8 febbraio, deliberarono di attuare un’ulteriore pressione sulla debole corte. Stabilirono di avvisare i ministri dei pericoli a cui il paese sarebbe andato incontro “con mezzane concessioni e tiepidi provvedimenti”.[lxx] Giunse proprio allora a Torino un dispaccio del Governatore di Genova che dichiarava che non esservi più altro rimedio, per tener buona la piazza, che dichiarando lo stato d’assedio o la Costituzione. Questa comunicazione fu decisiva. La paura di una sollevazione ebbe il suo effetto. Verso mezzogiorni il Ministro guardasigilli annunciava in via ufficiosa, che tra poco Sua maestà avrebbe fatto una concessione che avrebbe reso contento il popolo. Alle quattro circa del pomeriggio dell’8 febbraio 1848, un regio decreto annunciava a Torino e alle province subalpine che Carlo Alberto aveva deciso di concedere uno Statuto.

  Qualche giorno fu speso per raffazzonare gli 84 articoli che lo componevano. Il 4 marzo fu solennemente promulgato e il 24, il giorno successivo all’entrata in guerra, senza alcuna dichiarazione, contro l’Austria, proclamato legge fondamentale del Regno di Sardegna.

  La rivoluzione aveva vinto.



[i] La genesi dello Statuto. Studio storico, in “La Civiltà Cattolica”, a. XLIX, serie XVII, vol. I, 1898, pp. 7-8.

[ii] Le ‘Cospirazioni romane’ di Emilio Cerro, in “La Civiltà Cattolica”, a. XLIX, s. XVII, vol. V, 1898, pp. 571-572.

[iii] Trosiéme èdition, Paris, Plon, 1861, vol. II, p. 135.

[iv] Ivi, pp. 106-107.

[v] Primo Ministro del Re di Sardegna.

[vi] Le ‘Cospirazioni romane’…, p. 573.

[vii] G. Briano, Vita di Roberto d’Azeglio, Torino, Unione tipografico-editrice, 1861, pp. 27-28.

[viii] Le ‘Cospirazioni romane’…, p. 574.

[ix] Lo Statuto e il giuramento di carlo Alberto, in “La Civiltà Cattolica, a. XLIX, serie XVII, vol. II, 1898, p. 132.

[x] Lo Statuto e il giuramento…, p. 268.

[xi] Lo Statuto e il giuramento…, pp. 269-270.

[xii] Lo Statuto e il giuramento…, p. 276.

[xiii] Lo Statuto e il giuramento…, p. 526.

[xiv] La massoneria, ecco il nemico: cioè l’Enciclica Humanum genus, in “La Civiltà Cattolica”, a. XXXIV, serie 12°, vol. VI, 1884, p. 395.

[xv] Lo Statuto e il giuramento…, p. 527.

[xvi] Lo Statuto e il giuramento…, p. 527.

[xvii] Lo Statuto e il giuramento…, p. 529.

[xviii] Lo Statuto e il giuramento…, p. 530.

[xix] Lo Statuto e il giuramento…, p. 531.

[xx] Lo Statuto e il giuramento…, p. 532.

[xxi] Lo Statuto e il giuramento…, pp. 532-533.

[xxii] Lo Statuto e il giuramento…, pp. 533-534.

[xxiii] Lo Statuto e il giuramento…, p. 534.

[xxiv] Lo Statuto e il giuramento…, pp. 535-36

[xxv] Lo Statuto e il giuramento…, p. 536.

[xxvi] Lo Statuto e il giuramento…, p. 537.

[xxvii] Lo Statuto e il giuramento…, p. 541.

[xxviii] Lo Statuto e il giuramento…, p. 542.

[xxix] Lo Statuto e il giuramento…, pp. 543-544.

[xxx] Lo Statuto e il giuramento…, vol.III, p. 43.

[xxxi] Lo Statuto e il giuramento…, vol. III, p. 45.

[xxxii] Lo Statuto e il giuramento…, vol. III, p. 48.

[xxxiii] Lo Statuto e il giuramento…, vol. III, p. 49-51.

[xxxiv] Lo Statuto e il giuramento…, vol. III, p. 51.

[xxxv] La genesi dello Statuto. Studio storico…, vol. I, pp. 8-9.

[xxxvi] La genesi dello Statuto. Studio storico…, vol. I, p. 11.

[xxxvii] C. Solaro de La Margarita, Memorandum storico politico, Torino, 1851, citato in La genesi dello Statuto. Studio storico…, vol. I, pp. 12-13.

[xxxviii] C. Solaro de La Margarita, Memorandum…, citato in La genesi dello Statuto. Studio storico…, vol. I, p. 15.

[xxxix] La genesi dello Statuto. Studio storico…, vol. I, p. 15.

[xl] La genesi dello Statuto. Studio storico…, vol. I, pp. 20-22.

[xli] Predari, I primi vagiti della libertà italiana in Piemonte, Milano, 1861, p. 39-40.

[xlii] La genesi dello Statuto. Studio storico…, vol. I, p. 289.

[xliii] Predari, I primi vagiti della libertà…, p. 66.

[xliv] Predari, I primi vagiti della libertà…, p. 68.

[xlv] La genesi dello Statuto. Studio storico…, vol. I, p. 290.

[xlvi] La genesi dello Statuto. Studio storico…, vol. I, p. 290.

[xlvii] La genesi dello Statuto. Studio storico…, vol. I, p. 290.

[xlviii] La genesi dello Statuto. Studio storico…, vol. I, p. 291.

[xlix] Vol. I, p. 55.

[l] M. D’Azeglio, I miei ricordi, Firenze, A, Croce, 1881, pp. 479-480.

[li] Lettera dell’Avv, Enrico Cornero, in Archivio triennale delle cose d’Italia, II, p. XIX.

[lii] C. Solaro de La Margarita, Memorandum…, citato in La genesi dello Statuto. Studio storico…, vol. I,

[liii] N. Bianchi, Curiosità e ricerche, puntata XII, p. 754.

[liv] C. Solaro de La Margarita, Memorandum…, citato in La genesi dello Statuto. Studio storico…, vol. I, 298.

[lv] C. Solaro de La Margarita, Memorandum…, citato in La genesi dello Statuto. Studio storico…, vol. I, 299.

[lvi] Sclopis, Storia della legislazione italiana, III, 332, citato in La genesi dello Statuto. Studio storico…, vol. I, p. 303.

[lvii] La causa nazionale negli anni 1847-48-49. Ricordi storici, in “La Civiltà Cattolica”, a. XLIX, serie XVII, vol. IV, 1898, p. 273.

[lviii] Citato in La causa nazionale…, vol. IV, p. 669.

[lix] La genesi dello Statuto. Studio storico…, vol. I, p. 304.

[lx] Sclopis, Storia della legislazione italiana, III, 333, citato in La genesi dello Statuto. Studio storico…, vol. I, p. 304.

[lxi] C. Solaro de La Margarita, Memorandum…, citato in La genesi dello Statuto. Studio storico…, vol. I, p. 305.

[lxii] M. D’Azeglio e Pantaloni, Carteggio inedito, lettera del 22 ottobre 1847, p. 175, citato in La genesi dello Statuto. Studio storico…, vol. I, p. 527-528.

[lxiii] N. Bianchi, Storia della diplomazia europea, V, 90, citato in La genesi dello Statuto. Studio storico…, vol. I, p. 534.

[lxiv] Citato in La genesi dello Statuto. Studio storico…, vol. I, p. 534.

[lxv] Citato in La genesi dello Statuto. Studio storico…, vol. I, p. 536.

[lxvi] Citato in La genesi dello Statuto. Studio storico…, vol. I, p. 671.

[lxvii] Citato in La genesi dello Statuto. Studio storico…, vol. I, p. 671.

[lxviii] Citato in La genesi dello Statuto. Studio storico…, vol. I, p. 672.

[lxix] Citato in La genesi dello Statuto. Studio storico…, vol. I, p. 673.

[lxx] Citato in La genesi dello Statuto. Studio storico…, vol. I, p. 674.