INNALZAMENTO DELL’Età PENSIONABILE PER LE DONNE E ALIENAZIONE FEMMINILE MODERNA

 

A seguito di un pronunciamento della Corte di Giustizia europea, al quale l’Italia è tenuta a conformarsi, per ragioni di uguaglianza nel lavoro fra uomini e donne (principio codificato anche dalla nostra decrepita costituzione, all’art. 37) è stato stabilito che l’età pensionabile femminile sia progressivamente innalzata, da 60 a 65 anni, equiparandola così a quella degli uomini. Il Governo sta per applicarla limitatamente alle lavoratrici statali, per ora, onde arginare il crescente malcontento; ma è inevitabile che il processo sia esteso in futuro a tutto il comparto del pubblico impiego. E poiché il regime contrattualistico vigente equipara la più gran parte dei pubblici dipendenti alla disciplina del rapporto di lavoro nel settore privato, anche in quest’ultimo ambito i contratti collettivi dovranno prevedere in avvenire disposizioni analoghe, onde evitare disparità di trattamento.

Rispetto all’iniziativa governativa, il paradosso è che diverse centrali, perenni fomentatrici dell’eurolatria più intransigente e del più invasivo pareggiamento fra i sessi (come sindacati, femministe storiche, gran parte della sinistra ecc.) si dichiarano ora contrari all’equiparazione dell’età pensionabile, superati a sinistra, in questa isteria egualitaria, dagli eurocrati di Bruxelles e di Strasburgo, dai radicali e da esponenti del cosiddetto centro-destra, servitore ossequiente e sciocco di tutto quanto sovverte quel poco di ordine naturale e tradizionale che ancora rimane nella società odierna.

Nel momento in cui scriviamo, e secondo una più che consolidata prassi, il belante governo berlusconiano sembrerebbe darsela a gambe in questa materia ― e sarebbe stavolta una buona cosa ― preoccupato delle reazioni in atto; anche se una sua retromarcia tattica appare dunque inevitabile, riguardo a questa vicenda si possono trarre in ogni caso alcune semplici considerazioni di buon senso, che qui esponiamo sinteticamente.

 

1. IL DIRITTO COMUNITARIO PREVALE SU QUELLO INTERNO - Quanto sia stata sciagurata quella giurisprudenza della Corte costituzionale, applaudita da tutti gli eurolatri del diritto, che ha equiparato la Corte di Giustizia europea alla Consulta e gli eurotrattati al rango dell’italica Costituzione, sancendo addirittura il principio della preminenza del diritto comunitario su quello interno dei rispetti Paesi, Italia inclusa, ognuno oggi lo vede. Questa rovinosa cessione della sovranità da parte dello Stato, che tocca il suo apice in ambito monetario e il lato più totalitario e inquietante nel mandato di cattura europeo, fa sì che non sia possibile apprestare nessuna valida difesa sul piano del diritto, rispetto all’incontrollabile arroganza progressista degli EuroSoloni, che non sia la denuncia dei trattati e l’uscita dall’Unione Europea, decisione che richiederebbe però un grado di coraggio e di moralità che nessun governo democratico, meno che meno quello berlusconiano (ginocchioni davanti a un despota terzomondiale e da operetta come Gheddafi) avrà mai. Sarebbe  un atto eroico, del tutto impensabile per politicanti senza princìpi, che hanno di mira soltanto la carriera e il proprio personale tornaconto e perciò assolutamente impossibile.

 

2. L’EGUALITARISMO E L’ESPULSIONE DELLA DONNA DALLA FAMIGLIA, DIETRO LE APPARENTI MOTIVAZIONI - La motivazione apparente, addotta per giustificare il provvedimento, è quella di non discriminare i lavoratori di sesso maschile: nessuno dei quali, però, a quanto ci risulta, si è mai lagnato di questa disparità. Un’altra apparente motivazione ch’è stata affacciata, più timidamente dell’altra però, è quella che l’innalzamento dell’età pensionabile femminile renderebbe più cospicua la pensione delle donne, che però non si sono mobilitate per rivendicazioni di questo genere, anzi paiono contente così. L’obiettivo reale è, in realtà, quello, ideologico, di staccare ancora di più la donna dai suoi affetti domestici e dalla sua insostituibile missione familiare, costringendola a trascorrere ulteriori anni della propria vita imboscata in qualche ufficio. E, se vi sono figli, nipoti o anziani da accudire, tanto peggio per loro! Semmai ci penserà l’uomo-mammo (in un perfetto rovesciamento dell’ordine di natura) magari con i cosiddetti congedi parentali, da assegnare a lui; e così il sovvertimento sarà completo. Lo Stato risparmierà inoltre preziosi anni di pensioni. In compenso, la qualità della vita delle interessate e dei loro familiari, precipiterà sensibilmente, rendendo le prime ancora più isteriche e inacidite di quanto già non fossero prima, collocate in luoghi a loro non connaturali, anzi del tutto inconfacenti con la loro indole. Donde le reazioni cui assistiamo: la natura, si sa, si ribella: natura non facit saltus. Sintomatica in tal senso la resistenza delle famiglie italiane a maggiori tassi di occupazione femminile, fermi oggi al 45%, rispetto a Paesi più disastrati sotto il profilo morale (nel linguaggio progressista, detti “Paesi più avanzati” o “democrazie mature”) con rabbia grandissima degli egualitari sfascia-famiglie. (Si deve dire però che la percentuale femminile nel pubblico impiego era già del 51% nel 2003, con punte del 60,41% nel personale sanitario e del 74,47% nella scuola). Sintomatica ancora di più di questa naturale resistenza, l’inchiesta del mensile Class, riportata su La Stampa (8 dicembre 2004) secondo cui sei donne su dieci, fra i 30 e i 45 anni, tutte imprenditrici e libere professioniste, sono disposte a fare le casalinghe a fianco dell’uomo amato, per amor suo e dei figli.

 

3. LA COSTITUZIONE SOVIETICA SCAVALCATA A SINISTRA - Interessante notare lo scavalcamento a sinistra, da parte della Corte Europea, della pur sovietica costituzione del 1948, tuttora vigente nel nostro Paese: la quale, pur favorendo l’espulsione femminile dalla famiglia, secondo i dettami cari a Lenin e al comunismo e pur equiparando il regime dell’occupazione femminile a quella maschile, soggiungeva (giusto per dare un contentino a destre e mondo cattolico) che “le condizioni di lavoro devono consentire l'adempimento della sua [della donna cioè] essenziale funzione familiare e assicurare alla madre e al bambino una speciale adeguata protezione” (art. 37, 2° comma). Di tutto questo il diritto comunitario, in tema di previdenza, “francamente se ne infischia!”, per usare le parole di Clark Gable a conclusione di Via col vento. Senza dire che un’equiparazione salariale fra maschi e femmine non vi potrà mai essere, per il semplice fatto che le capacità di lavoro dell’uno e dell’altra sono ovviamente in sé diverse; e che sulla lavoratrice gravano anche le mansioni domestiche e, dunque, non potrà mai (diversa qualità del lavoro a parte) caricarsi dello stesso numero di ore di un lavoratore maschio.

 

4. L’ORDINE NATURALE, SOVVERTITO, SI VENDICA - Tutto questo conferma la perdurante validità della dottrina naturale e cattolica a proposito della donna e del lavoro femminile, prezioso retaggio di tradizione presso il nostro, come presso tutti gli altri popoli non imbestialiti. Questa dottrina insegna, con San Paolo (1° Tim. 2, 15), che “la donna si salverà mediante la generazione dei figli, a condizione di perseverare nella fede, nella carità e nella santificazione, con modestia”. Dunque la regola d’oro è che la donna, pensando il marito ad assicurare i mezzi economici necessari al mantenimento di tutta la famiglia, si prenda cura della casa, del marito, dei figli, dei nipoti e degli anziani, se ve ne sono, e così condursi alla salvezza eterna. Cura che nessuna sollecitudine di estranei potrà mai sostituire nella dedizione e nell’amore; non a caso questo mandato proviene da Dio stesso, che ben conosce l’intima natura delle sue creature, donne incluse. Non a caso tutti i fautori del sovvertimento familiare e femminile, per proseguire nella loro opera di devastazione morale, sono costretti a negare l’esistenza stessa di norme di natura che differenziano i due sessi e i rispettivi ruoli.

Il lavoro femminile (extradomestico) si può ammettere solo entro i seguenti limiti: che se ne dia vera necessità, da intendersi in senso restrittivo, non dunque secondo i parametri del consumismo contemporaneo, giacché è preferibile affrontare grandi sacrifici materiali in famiglia, ma non esporre fidanzate e mogli (o, peggio, i figli) alla mentalità corruttrice del mondo e della modernità in ispecie; che il lavoro femminile sia una sorta di prolungamento della dimensione familiare (per esempio la sarta, la ricamatrice, la commessa, la badante, la domestica, la collaboratrice in un negozio o la segretaria in un’impresa del marito, del fratello o del padre; persino la suora sposa misticamente Gesù Cristo); che detto lavoro non distolga la donna dalla propria missione familiare e dai suoi affetti; che non sia incompatibile con l’indole del sesso, né che comporti un innaturale esercizio dell’autorità (collidono con questo principio l’insegnamento non primario affidato alle donne, gli uffici pubblici o burocratici, peggio ancora se con responsabilità dirigenziali, per non dire di quei veri e propri abbominii che sono le soldatesse, le questurine, le giornaliste, le magistratesse, le avvocatesse, le politicastre, le pugile ecc.) aberrazioni che piovono come autentici castighi sul capo delle interessate in primis, sui loro sfortunati congiunti e, peggio ancora, sui loro discendenti e, da ultimo, sull’intera società.

Tutto ciò era talmente vero che, ancora agl’inizi del ‘900, un regio decreto escludeva espressamente le donne da tutta una serie di mansioni pubbliche. Lo ripubblichiamo in allegato a questo scritto, a futura memoria. Poche cose sono ridicole infatti, come la femmina che monta in boria per il titolo di studio conseguito nelle fallimentari università contaminate dal morbo del ’68 o per l’ufficio (spesso mal) ricoperto o per un’autonomia economica che, assicurandone l’indipendenza, la rende sempre più insopportabile al prossimo e alle appartenenti al suo stesso sesso; esponendola inoltre a una sequela impressionante di fallimenti coniugali e familiari, affetti per i quali ella era stata invece creata. Fino ad arrivare ai non infrequenti casi di suicidio, registrati dalle cronache, specie fra le ultraquarantenni in carriera. Poche cose sono altrettanto ridicole come le beghe, le maldicenze, le scenate da cortile e i puerili dispetti di cui si rendono protagoniste le donne sul luogo di lavoro e che solo la piaggeria del politicamente corretto non permette di divulgare, ma che sono esperienza quotidiana di ogni lavoratore costretto a convivere con esse. Per non dire dei tradimenti, delle seduzioni e delle infedeltà extraconiugali. Quante volte gli uffici, le cattedre scolastiche o i tribunali, si trasformano in altrettante passerelle della femminea vanità?

Quante volte abbiamo dovuto ascoltare le lagnanze, queste sì, di colleghi maschi esasperati dall’incapacità o naturale inattitudine professionale, ad esempio, della poliziotta o della vigilessa in servizio col collega maschio! Ed ecco che le donne moderne, strappate alla loro condizione naturale, ricevono l’ennesimo guiderdone avvelenato dai moderni idoli di progresso che hanno adorato e servito: altri cinque anni di lavoro, per ammattire di più.

Prostituzione a parte, che comunque coinvolge ampiamente anche le nostre connazionali, è singolare che le donne dell’America Latina, dell’Est europeo e le terzomondiali abbiano mantenuto, più delle italiane e delle occidentali in genere, una dimensione di vita più femminile, più rispettosa della propria indole e ancorata agli affetti, di tante scarmigliate connazionali, che inseguono miserabili avanzamenti di carriera o qualche beneficio economico in più, in danno dei propri affetti: si pensi al caso clamoroso dell’impiegata che si mangia buona parte dello stipendio, per pagare gli estranei cui affidare i propri figli, col bel risultato di lavorare per farli “educare” o alienare da sconosciuti.

Quando ci si allontana dalla verità sull’uomo (inteso come genere umano) non solo si cade nel peccato, ma il peccato produce, a sua volta, nefaste conseguenze anche sul terreno della qualità della vita e sul tenore economico e materiale. Questo succede perché si dimentica che la vita quaggiù è di passaggio e serve per guadagnare il paradiso: non è dunque importante vivere sempre al meglio la nostra esistenza quaggiù, se poi si perde quella eterna. È vero invece il contrario: meglio qualche avversità sulla terra, in cambio di un’eterna beatitudine nel Cielo. Non lo dimentichi l’uomo egoista che, per avidità di guadagni, tante volte è il primo a sospingere la propria moglie o fidanzata o convivente che sia, a guadagnare; non lo dimentichi la donna, che mai come in quest’epoca ha perduto il senno e il senso stesso della propria missione e il fine della sua vita. Solo il ritorno alla società tradizionale potrà evitarci ulteriori abbominii, come quelli indotti dalla Corte di Giustizia europea.

 

                                                                                                               Maurizio-G. Ruggiero

 

 

Verona, 4 marzo 2009